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Il torneo invernale degli autori TSD: la terza sfida – intervista doppia a Emanuela Fontana e Sibyl Von Der Schulenburg

emanuela fontana vs sibyl von der schulenburg

E.F.: La mia indole mi spingerebbe a scrivere noir o gialli. Da giornalista mi sono occupata anche di cronaca nera e da piccola il mio sogno era diventare un’esploratrice, o un’archeologa. È molto importante scandagliare le attitudini dei bambini, perché la loro natura parla con onestà. Spesso, da adulti, non si fa che tornare a quella fonte di piacere originaria che qualche volta dimentichiamo negli anni. Credo che la ricerca, l’indagine, siano i due istinti primari che mi spingono a scrivere di storie lontane, accanto alla nostalgia delle parole musicali che mi porto dietro dallo studio delle civiltà antiche e delle loro letterature. Molti anni fa scrissi, per cominciare, un thriller e poi un giallo, ora indago la storia essenzialmente per scoprire percorsi non battuti, per fornire un contributo di conoscenza, cambiare il punto di vista, dare giustizia a personaggi noti di cui si ha visione stereotipata, o a quelli poco noti inspiegabilmente dimenticati. Credo che per scrivere romanzi storici siano necessarie umiltà e pazienza. L’umiltà aiuta a sentirsi ignoranti e a ricominciare da capo nello studio, togliendosi dalla testa i luoghi comuni delle nozioni apprese. Mi piace recuperare le vittime della damnatio memoriae o di semplici distrazioni della storia, dare voce a chi non ha raccontato tutto e andare a indagare proprio in quelle zone che all’apparenza sembrano molto esplorate. Non so se scriverò sempre e solo romanzi storici, ma ritengo che questo sia un genere che consente di consegnare un libro utile, oltre che piacevole. Credo molto nell’utilità dell’arte e tutti i libri hanno un enorme potenziale di conoscenza da donare, di compagnia per chi legge, di sostegno per chi cerca risposte, anche piccole. Ma provare a ‘raddrizzare’ alcune storture della storia con la mente libera come quella di un bambino, e soprattutto lavorare per la memoria, possono essere due aiuti preziosi per una società che vive molto di presente, di velocità e di contemporaneità. Vedo tanti autori bravissimi sul contemporaneo: dal momento che mi piace scavare, credo di essere più utile scrivendo romanzi storici, in particolare biografie romanzate, che porto avanti con il rigore di un saggio ma che necessariamente hanno bisogno di ponti di fantasia solida, ossia costruita sullo studio e quindi vicina al reale, per colmare i vuoti, gli abissi, che spesso trovo nel mio percorso.

S.VdS: Non ho scelto io, fa parte del mio DNA. Sono figlia di due scrittori tedeschi di romanzi storici, soprattutto mio padre. Sono cresciuta sentendo ticchettare le macchine da scrivere e quando tacevano era meglio eclissarsi perché poteva solo significare “sindrome della pagina bianca” e allora il malumore degli scrittori si faceva sentire. Ho potuto godere di una gioventù piena di cultura e bellezza grazie ai diritti d’autore dei miei genitori. Poi, come il figlio di qualsiasi altro artigiano (perché la scrittura è in gran parte artigianato) ho raccolto l’eredità apportando modifiche di lavorazione e cercando nuovi mercati.

E.F.: Immagino un piatto completo. Quindi scelgo uno dei miei preferiti in assoluto: la pasta con le sarde. La Sicilia, insieme a Roma, è il luogo d’Italia dove la storia mi travolge. Anzi, la sensazione in Sicilia è più forte, una tempesta di stimoli. Quando vado in quella terra sento l’incanto e la frenesia di Dioniso, vedo personaggi in cerca di autore lungo duemila anni di trasformazioni, immagino il gran ballo del Gattopardo e gli amori di qualche sconosciuta danzatrice di Taormina. Le due paste alle sarde migliori della mia vita le ho mangiate a Selinunte e a Noto, mondo greco e barocco. Il finocchietto, ingrediente fondamentale e antico, a Roma si raccoglie al Parco degli Acquedotti, lungo le maestose arcate costruite dai romani. Per tutte queste ragioni vi invito ad assaporare questo piatto e a salire sulla macchina del tempo.

S.VdS: Non sarebbe una pietanza ma un solo ingrediente: il peperoncino. Quel pizzicore che produce sulla lingua non è un gusto ma una risposta di dolore, una sensazione chemestetica. Così è la storia: se sappiamo dosarla ci dà quella sensazione dolorosa sufficiente a farci sentire bene, a volerne ancora e ancora. E come la capsaicina, il principio attivo del peperoncino, la storia stimola il metabolismo psichico e ci fa sentire vivi. Nel romanzo storico è tutta questione di dosaggio.

E.F.: Rispondo d’istinto: nella casa di Leonardo Da Vinci. Anche se vorrei trascorrere anche qualche notte a guardare le stelle con Galileo. Ma con Leonardo sarebbe un continuo salto da una curiosità all’altra. Ci comprenderemmo nel nostro caos, spero. Mi fanno molta simpatia le persone che hanno culture enciclopediche, che si perdono in vasti campi di saperi, in generale gli incontenibili, come il nostro Antonio Vivaldi, che è stato protagonista di un mio romanzo (Il respiro degli angeli) e che sperimentava tutti gli strumenti musicali. Naturalmente Leonardo non può che venire dopo Vivaldi e Manzoni, il coprotagonista del mio secondo romanzo storico pubblicato quest’anno (La Correttrice) Ma sono già stata nelle case di Vivaldi e di Manzoni, quindi dovevo sceglierne un terzo. Vorrei vedere Leonardo, soprattutto, mentre dipinge la Gioconda, e capire chi aveva davanti, o chi aveva in mente.

S.VdS: Ho avuto la fortuna di vivere nella casa di un personaggio storico: Werner von der Schulenburg, mio padre, un membro dell’antinazismo attivo. Avevo solo quattro anni quando è morto, ma l’ho conosciuto attraverso l’importante archivio che ha lasciato, in cui ci sono firme di chi ha fatto la storia come Margherita Sarfatti, Luciana Frassati, Franz von Papen, Benito Mussolini, Alessandro Pavolini, Emma Gramatica, Benedetto Croce, Adolf Hitler e tanti altri. Il mio primo romanzo storico è su di lui. È tanto preciso e documentato da essere diventato fonte biografica.

E.F.: Anche qui rispondo d’istinto. Non penso ai grandi colossal storici, ma ai film di ambientazione storica che rivedrei per cercare sempre qualcosa in più. Per me Il Film è Forrest Gump. È storia e favola, poesia e ricostruzione del percorso di una Nazione, che riesce a insegnare e a far piangere insieme. Cito anche Amadeus, il grande film sull’invidia, che per me è stato anche oggetto di studio (ne ho letto la sceneggiatura integrale) per il mio libro su Vivaldi. So che probabilmente non rende giustizia a Salieri, ma è potente, e il pubblico sa che è solo un’interpretazione dei fatti. Titanic è un film che ritengo tecnicamente perfetto. Brave Heart è stato criticato perché non aderente al vero per alcune scelte, ma non lo vedo da molto tempo e la lotta per la libertà mi commuove sempre.

S.VdS: Ben Hur, ma solo perché ricorda la mia infanzia.

E.F.: Lascerei Renzo e Lucia a Lecco, alla fine dei Promessi Sposi. Inizialmente non avevo capito perché Manzoni li avesse fatti traslocare, nelle ultime pagine del libro. Certo, ne avevano passate troppe, ma in fondo don Rodrigo non c’era più, la povera Agnese era piuttosto anziana. Poi ne ho immaginato la ragione: a Lecco don Alessandro aveva lasciato il suo cuore. Lecco era  il luogo della sua infanzia e della sua solitudine, probabilmente delle sue camminate da ragazzo sul Resegone e le altre cime, quando tornava dal padre, che poi non era suo padre, dopo il collegio. Il contatto di Manzoni con la natura è piuttosto inesplorato, ma emerge da alcuni indizi, oltre che dall’amore che riverserà sul suo giardino di Brusuglio. Dopo la vendita dei terreni e della villa, pare che non sia più tornato a Lecco. È difficile tornare nei luoghi dell’estrema felicità è dell’estremo dolore.

Nella grazia e nella musica delle prime righe dei Promessi Sposi, un “setting” da cinema con il volo sul ramo del lago e della corona dei monti, si capisce, credo, questo legame silenzioso e struggente, che palpita nell’addio di Lucia, quando deve lasciare la sua casa e guarda il paese partendo sull’acqua. Avrei visto il finale del romanzo come un ritorno a casa. Per tutti, anche per l’autore.

S.VdS: Questa è una domanda spinosa. Ne cambierei tanti e tanti altri li farei riscrivere completamente ma –ovviamente – non posso dire quali. Posso dire però che uno degli errori principali è la morte dell’eroe. Uno scrittore dovrebbe avere il coraggio di limitare la sua foga scrittoria e terminare un romanzo lasciando l’eroe in vita. Solo così il personaggio potrà continuare a vivere nel lettore.


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