Viaggio nella storia

L’usanza del mare

Articolo a cura di Giuliano Conconi

Non occorre che m’attardi sul pauroso pasto che seguì. Spettacoli simili possono essere immaginati, ma nessuna parola avrà mai la forza di trasmettere tutto l’orrore della realtà. Basti dire che, avendo in qualche modo appagato la terribile sete che ci ardeva bevendo il sangue della vittima, e avendo per comune consenso staccato mani, piedi e testa, buttandoli a mare con le viscere, divorammo il resto del corpo durante i quattro per sempre memorabili giorni del 17, 18, 19 e 20 del mese.

Ho scelto questo passo del Gordon Pym di Edgar A. Poe per aprire l’argomento del cannibalismo in mare, l’unico tipo di cannibalismo “giustificato” nei secoli scorsi, tanto da venire chiamato “l’usanza del mare”.

La letteratura del terrore più di una volta ha trattato il tema: del resto, gli scrittori spesso hanno preso spunto per le loro folli storie da episodi realmente accaduti.

Nonostante la parola “cannibalismo” metta sempre un po’ a disagio, i casi in cui uomini si sono di cibati di altri uomini in extremis, guidati solo dall’istinto di sopravvivenza, sono stati molto meno infrequenti di quanto ci si aspetti.

Ricordate l’incidente aereo avvenuto sulle Ande nel 1972, dal quale sono stati tratti il libro e il film Alive – sopravvissuti?
Quanti di noi si sono chiesti: se rimanessi su un’isola deserta senza cibo e con altre persone, sarei disposto a… farlo?
Credo che razionalmente non sia possibile immedesimarsi in colui che, per continuare a rimanere in vita, arriva a commettere il folle gesto di cibarsi di un suo simile. Senza voler approfondire l’argomento, macabro quanto affascinante, e senza voler far paragoni con altre specie animali dedite alla pratica, limitiamoci, nelle poche battute che mi sono concesse in questo spazio, a ricordare i casi più famosi di cannibalismo in mare.

11 dicembre 1710: il veliero Nottingham Galley, a causa dei forti venti, si ritrova sugli scogli. L’equipaggio è costretto a gettarsi in mare e a nuotare in cerca di salvezza tra i flutti impetuosi. Lontani dalle coste ben dodici miglia marine, non affrontabili a nuoto in quelle condizioni, gli uomini non trovano di meglio che rimanere accampati sugli scogli, esposti alle intemperie, in attesa di insperati soccorsi. Durante i primi giorni si nutrono di alghe e bevono l’acqua piovana. Quando qualcuno riesce a trovare una cozza, si sfiora la rissa per averla. Ben presto i morsi della fame e la disperazione prendono il sopravvento.

Dopo tre settimane di veri e propri stenti, si arriva al quarto decesso. E, proprio in quel momento, tutta la ciurma, impaurita e disperata, decide di provare a mangiare il compagno morto, invece di gettarlo in mare. Si fanno forza l’uno con l’altro: non stanno peccando, non bestemmiano Dio, perché è stato proprio lui a cacciarli in quella situazione e a prendersi la vita del naufrago. Non l’hanno certo ucciso loro. Per sentirsi meno in colpa l’equipaggio, guidato dal comandante, smembra il cadavere tagliando testa, mani e piedi. Gettando via queste parti, cercano di convincersi che quella carne che stanno così avidamente divorando appartiene a un qualche animale e non al loro ex compagno di sventura. Fortunatamente quello è l’unico corpo utilizzato per sfamarsi: la ciurma riesce infatti a conservare il “cibo” e creare piccole porzioni miste a grosse quantità di alghe, tanto da sopravvivere sino al 4 gennaio 1711, giorno nel quale una nave di passaggio porta tutti in salvo.

Un secondo caso fu quello capitato alla sfortuna ciurma di stanza sulla Peggy, salpata dalle Azzorre con un carico di liquori il 24 ottobre 1765. Appena tre giorni dopo la partenza, a causa di una tempesta, l’imbarcazione finisce alla deriva, gli alberi spezzati. I dieci marinai a bordo riescono a sopravvivere i primi giorni grazie alle provviste, per poi decidere di affogare i loro dispiaceri (è il caso di dirlo!) nel carico trasportato: alcolici. In preda ai fumi dell’alcol non ci mettono molto a decidere di mangiare prima i gatti presenti a bordo, poi le suole degli stivali, la cera delle candele, gli arredi in cuoio. Qualsiasi cosa va bene per far cessare i tremendi crampi della fame. Quando la salvezza è a portata di mano, il giorno di Natale, i dieci uomini se la lasciano scappare a causa del loro stato di grave alterazione mentale: alcuni pescatori a bordo di un peschereccio, avvistatili, si avvicinano per aiutarli ma, in seguito a violente discussioni scoppiate a distanza, temendo per la propria incolumità, decidono di non raccoglierli a bordo e lasciarli al loro destino. È con il nuovo anno, nel gennaio 1766, che i naufraghi prendono la decisione di uccidere a sorte uno di loro per cibarsene.  Non si ricorre davvero alla dea bendata: tutti sono già dell’idea di tendere un’imboscata all’unico marinaio di colore presente nella ciurma, come infatti accade. Anche in questo caso mani, testa e piedi del cadavere vengono gettati in mare. Un membro dell’equipaggio, colui che mangia il fegato del compagno, impazzisce. Ancora una volta il corpo viene razionato, e le nuove abominevoli provviste durano fino alla fine del mese di gennaio, quando una seconda nave di passaggio trae in salvo i superstiti, già pronti per un secondo “sacrificio” (era stata estratta infatti la nuova vittima proprio il giorno prima del recupero).

La zattera della Medusa – Géricault

Per chiudere la nostra folle crociera tra i cannibali del mare, non posso non accennare al celeberrimo episodio che ha ispirato al pittore Géricault il meraviglioso dipinto “La zattera della Medusa”, che ho avuto il privilegio di poter ammirare al Louvre.

La nave Medusa salpa dalla Francia con destinazione Senegal nel giugno 1816, affidata alle cure (si fa per dire) del capitano Hugues Duroy de Chaumareys il quale, non solo non va in mare da vent’anni, ma neppure ha mai navigato nella tratta interessata dal viaggio. È a causa di errore umano se la nave non arriva mai a destinazione: si schianta contro gli scogli al largo delle coste africane. L’impatto è tremendo: delle centocinquantuno persone a bordo se ne salvano solo sessantasette. Grazie a una grossa zattera ricavata dai resti della nave, riescono a sopravvivere nei giorni seguenti, ma già dopo una settimana i primi morti vengono mangiati dai compagni di sventura. Dopo tre settimane sulla zattera sono rimasti solo quindici persone: gli altri sono venuti meno per stenti, sono caduti in mare o sono stati gettati tra le onde per alleggerire la sempre più malconcia zattera. Il viaggio della speranza e della sopravvivenza si conclude bene, ma solo per sei uomini: ciò che rimane della zattera della Medusa arriva infine sulle coste.
Il fatto scatena polemiche così violente in Francia che il governo deve addirittura dimettersi.

Géricault fu impressionato moltissimo dalla vicenda (come del resto tutta l’opinione pubblica), tanto che decise di dipingere uno dei suoi capolavori.

Vi invito a riguardare il dipinto, con nuovi occhi.
Quelli del naufrago che, con i crampi allo stomaco e le labbra spaccate dal sole cocente e dalla sete, per sfuggire a morte certa, diventa mangiatore di uomini.

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