Articolo a cura di Matilde Titone
Sono siciliana di parte occidentale, eh sì perché è diverso essere siciliani d’occidente e siciliani d’oriente, un po’ come essere di Roma Nord o Roma Sud. Parto da questa premessa perché voglio parlarvi di un piatto tipico della Sicilia tutta, ma declinato in modo diverso, al femminile a Palermo al maschile a Catania. L’Arancina o l’Arancino.

Occidentali o Orientali che siano i siciliani considerano questo piatto un cult della cucina regionale. Un cibo di strada, da asporto, da mercato, da feste importanti e pranzi familiari. A Palermo i mercati della Vucceria e Ballarò traboccano dal profumo di arancine e panelle (queste le lascio per un’altra volta) e si consumano appena uscite dalla friggitrice, calde fumanti che ti scottano il palato. A Catania è facile vedere gente che, seduta a villa Bellini o passeggiando per Via Etnea, invece del classico gelato, mangia l’arancino profumato al pistacchio.
L’arancina/o domina l’isola già quando si attraversa lo stretto. Il ponte non c’era quando ero piccola e non c’è a tutt’oggi: per raggiungere la Sicilia bisogna fermarsi a Villa S. Giovanni, nella punta estrema della Penisola. Una volta arrivati alla fine del “continente” si attende il traghetto che imbarca le macchine e i treni, i pullman e le persone. La traghettata dura poco, circa 20 minuti, il tempo di consumare un’arancina al bar guardando la costa dell’Isola dai colori forti e dal clima africano. Una volta le arancine più buone erano proprio quelle dei traghetti. Ora non più, ma vale sempre la pena di mangiarne una ammirando quello che dall’altra parte ci aspetta.
Tutto questo parlare ma che cos’è l’arancina/o? Credo tutti l’avrete provato o forse no. Per me che sono appunto siciliana di genitori nonni e avi siciliani è il piatto di capodanno e di Santa Lucia.

La storia di questo cibo ha origini lontane e anche esotiche. La tradizione più accreditata racconta che l’arancino/a nasce in Sicilia tra il IV e l’XI; come tutte le ricette a base di riso nell’Italia meridionale è da collocare durante la dominazione araba. Gli arabi avevano infatti l’abitudine di appallottolare un po’ di riso con dello zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con l’aggiunta di carne di agnello. Era una sorta di timballo inventato dall’emiro Ibn al Thumma.
Pare che l’imperatore Federico II di Svevia ne volle sperimentare la panatura e la frittura che ne garantiva la conservazione per una migliore asportabilità. Lo Stupor Mundi, ghiotto di riso, avrebbe finalmente potuto consumare gli arancini durante le sue famose battute di caccia col falcone. Un imperatore anche chef di rango imperiale al quale viene attribuito l’arancino come lo conosciamo oggi, croccante e perfetto da gustare in ogni momento, rigorosamente con le mani ed in ogni situazione, anche passeggiando, anche fuori casa! Si suppone che, inizialmente, l’arancino fosse considerato principalmente un cibo d’asporto, da consumarsi durante il lavoro in campagna o le battute di caccia. Dopo la scoperta delle Americhe venne introdotto come ingrediente anche il pomodoro che, con il tempo, lo si utilizzò per preparare il ragù, usato oggi come ingrediente principale.

Alcune fonti suggeriscono che le arancine siano un derivato del timballo, un piatto antico a base di riso presente in diverse cucine.
In alcune tradizioni, l’arancina è legata a un miracolo dovuto a Santa Lucia.
La tradizione risale al 1646, anno di una grande carestia che colpì la città di Palermo. Secondo la leggenda, i palermitani pregarono Santa Lucia per un miracolo, e proprio il giorno della sua festa arrivò un carico di grano al porto. Per la fame e la gratitudine, il grano fu consumato direttamente bollito, senza trasformarlo in farina. Da allora, si evita di mangiare pane e pasta, preferendo piatti a base di grano o riso. Le arancine, con il loro guscio dorato e ripieni saporiti, sono diventate il simbolo culinario di questa giornata di fede e tradizione.
Il nome “arancina” è di facile intuizione, l’arancina palermitana, sfera perfetta, ispirata alla natura del sole e del frutto, tonda come la femminilità, quella più atavica, espressione antropologica della fertilità e dell’abbondanza. L‘arancino catanese invece a punta, tributo all’alto Mongibeddu, l’Etna, fonte di ricchezza e fertilità, energia e nutrimento come dice sempre la bravissima Adelina, governante del Commissario Montalbano, “manciassi commissario che la viu sciupata”…. E gli porge il vassoio degli arancini. Nutrimento e energia per l’appunto.

Ma allora come dobbiamo chiamare questo piatto siciliano?
Entrambi i termini derivano dal dialetto siciliano “arancinu”, che significa “piccola arancia”. Il frutto è femminile, arancia, ma in siciliano, l’arancia è al maschile, quindi anche il nome della pietanza è al maschile. L’Accademia della Crusca, per tagliare la testa al toro, riconosce entrambi i termini come validi e ammette sia “arancino” che “arancina” nella lingua italiana, con una leggera preferenza per la versione femminile. (Scusate sono di parte e devo dire tutta la verità),
Infatti è una questione di lana caprina giocosa, una sorta di rivalità tra Palermo e Catania, che ha trasformato l’arancina e l’arancino in simboli identitari forti che rappresentano tradizioni e culture locali.
Comunque le vogliamo chiamare si tratta di un piatto molto buono, attraente alla vista e gustosa al palato. Da non confondere con il supplì che è tutt’altra cosa.
La preparazione è lunga e laboriosa, occorre un buon riso, lo zafferano e un ottimo ragù fatto con carne mista di manzo vitella e maiale e piselli e salsa di pomodoro. Una volta cotto il riso con lo zafferano va condito con parmigiano, burro e uova (ma c’è chi le mette dentro il riso e chi le usa solo fuori per la panatura, questione di gusti e tradizioni), si appallottola il riso nella mano e si forma una cavità che si riempie di ragù con piselli, molto fitto ovviamente, si chiude la pallina si passa nell’uovo e il pangrattato e si frigge… L’effetto è straordinario, il profumo è inebriante, tante palle di riso sfavillano sui vassoi e si portano in tavola ancora calde ma non troppo. E’ un tripudio dei sensi. Tutti i sensi infatti vengono coinvolti: la vista si appaga, l’olfatto si riempie, il gusto vibra di piacere, il tatto perché si mangiano rigorosamente con le mani, l’udito perché piccoli gridolini di giubilo si odono mentre i commensali gustano questo cibo di strada incredibilmente appetitoso. Ogni arancina pesa quasi un etto, e l’ingrassamento è proporzionale al peso…

N.B. Gli arancini più diffusi in Sicilia sono quelli al ragù (con piselli e carote), quelli al burro (con mozzarella e prosciutto) e quelli agli spinaci (conditi anch’essi con mozzarella), mentre nel catanese sono diffusi l’arancino alla catanese (con melanzane) e quello al pistacchio di Bronte.