Recensione a cura di Laura Pitzalis
In questo suo nuovo lavoro Lidia De Gaudio, come nel suo romanzo d’esordio, sceglie un titolo che mette insieme il “delitto”, elemento base del romanzo giallo, e una “via”, attingendo alla toponomastica di Napoli: “Il delitto di vico San Domenico Maggiore”.
Ritroviamo il commissario Alberto Sorrentino e i suoi collaboratori della questura di Napoli, alle prese con due indagini: il delitto di un rinomato chirurgo imparentato con la nobiltà napoletana e ben ammanicato con i pezzi grossi del partito fascista e l’arresto alla stazione di un ragazzino presunto borseggiatore.
Sembrerebbe, quindi, un romanzo giallo con le sue caratteristiche fondamentali: vittima, assassino, sospettati, investigatore, risoluzione del caso. Sembrerebbe ma è molto di più tanto che potrei paragonarlo a un mosaico costituito da tanti “tasselli-storie”, di per sé slegati fra loro, che s’incastrano perfettamente rendendo visibile il disegno finale.
Varie, infatti, sono le storie, gli aspetti, che s’intrecciano creando una trama incredibile, un pochino complessa, che la Del Gaudio gestisce in maniera magistrale.
Naturalmente l’aspetto più evidente è quello poliziesco. Siamo alla presenza del tipico giallo classico, dove la vicenda investigativa è predominante, e dove sono usati gli strumenti propri di questo genere, gli interrogatori.
Si sa che il genere poliziesco deve tenere desto l’interesse del lettore, anzi lo deve mettere alla prova con indizi, depistaggi, colpi di scena. Una prova che gli appassionati del genere vorrebbero fallire per arrivare fino in fondo a scoprire la conclusione della vicenda. E Lidia Del Gaudio ci riesce, costruendo una trama gialla in modo perfetto e conducendoci a un finale che ci spiazza, come un fulmine a ciel sereno, e che nello stesso tempo, tramite Sorrentino, ci fa riflettere sul significato di giustizia secondo la legge e quella secondo l’etica.
“ … detestava la morte che gli passava davanti agli occhi, i pezzi di quelle vite, vittime e carnefici, che non s’incastravano mai per davvero, perché nella realtà dei fatti, nonostante le confessioni e gli spergiuri, non si sapeva mai davvero quale fosse la verità. E forse la verità vera neppure esisteva, ognuno ce l’aveva dal suo punto di vista”.
Per quanto riguarda l’aspetto storico, la De Gaudio non ci racconta un periodo ampio né ha la pretesa di fare una ricerca storica troppo approfondita. Come per il suo primo romanzo, sceglie di descrivere dei giorni ben precisi, un singolo evento, usandoli come una scenografia, uno sfondo teatrale su cui far muovere i personaggi. Siamo nel 1940 e tutta la popolazione, e non solo quella napoletana, è in fermento per un discorso che Mussolini terrà il giorno 10 giugno annunciando grandi novità, parlando di “destino” e di “decisioni decisive”: il popolo sa molto bene cosa lo aspetta, venti di guerra bussano alla porta.
“… Certe volte non vedo l’ora di andarmene a combattere da qualche parte. Ma secondo voi, il nostro caro Duce si decide o no? Quanto ancora dobbiamo aspettare? Gli italiani sempre ultimi, dico io?”
“Avreste piacere di un’entrata in guerra?”
“E si capisce! Ma io, secondo voi, che tengo da perdere, anzi, che tengo a che verè cu ’sta pace? Fatico solo e stongo sempe senza ’na lira.”.
“E con la guerra ci guadagnereste?”
“Perché no? Uno accire a tanta gente, diventa eroe e allora tutti gli sbattono le mani, ammagari ’e fanno pure ’nu monumento, chi lo può sapere”.
In questo contesto l’autrice ci descrive le due anime di Napoli.
Una Napoli “fredda della disciplina e dei marmi di regime”, burocratica, dove tutto deve essere in ordine secondo i canoni del regime: autorità, ordine e giustizia. Dove l’esaltazione della dottrina fascista deve formare le future classi dirigenti e per questo avere al suo servizio insegnanti e uomini di cultura che non lascino spazio a nessuna discussione critica, e che si pongano completamente al servizio del regime.
L’altra la Napoli popolare delle tradizioni, la Napoli viva dove il contatto, la condivisione, l’arte di arrangiarsi genera furbizia e amore. E mi viene in mente Luciano De Crescenzo che diceva “Napoli non è una città è uno stato d’animo”.
E Lidia Del Gaudio ci fa vivere questo stato d’animo trasportandoci all’interno dei vicoli che s’intrecciano nel centro storico.
“ … dove resistevano le voci dai bassi, i panni stesi da un palazzo all’altro e le scorribande dei ragazzi, la gente che calava i panieri per fare la spesa o si scambiava il piatto del giorno dai balconi.”
Pungolando la nostra sfera sensoriale con i “purpetielli alla Luciana”, le melanzane alla parmigiana (con l’uovo però che, come dice Fortunata, “serve per tenere insieme gli ingredienti”), i bucatini allarpiati, gli spaghetti con chiapparielle e olive e il caffè che essendo un surrogato è, sempre secondo Fortunata, una “fetenzia”.
Tutto questo è descritto con uno stile narrativo asciutto ed elegante e con un linguaggio dell’epoca ottenuto con una minuziosa ricerca del modo d’esprimersi e pensare tipico degli anni ’40.
Uno stile molto teatrale che ci immerge in un’atmosfera che ricorda quella delle commedie di Eduardo De Filippo, soprattutto per i dialoghi disseminati di espressioni dialettali che ho adorato: “nu guagliuncello”, “nu scugnizzu”, ”abbuffato di mazzate”, “comprare per abbuffarsi l’anima”, “pucundria”, “fare ammuina” …
“ … Nunziatina invece sbuffò, batté un paio di volte il piede per terra, si puntò le mani in vita. «Mammà, ’o duttore tene che ffa’…” sbottò smaniosa. “E pur’io. Perciò, jamme bell, sbrigati con la denuncia e basta.” Le lanciò un’occhiata di fuoco, girò sui tacchi e se ne andò lasciandoli da soli.”
Infine non posso non citare altri due aspetti del romanzo quello leggendario e misterioso, che ha una parte importante nell’indagine, e quello musicale.
Il primo riguarda la figura del principe di Sansevero, Raimondo di Sangro, che Lidia Del Gaudio presenta sotto un’altra veste, senza privarlo però di quell’alone di fascino che ha alimentato la leggenda su di lui. Anche qui non vuole approfondire il personaggio ma lo utilizza per costruire il giallo.
Il secondo la musica: ma si può pensare a Napoli senza la musica? Assolutamente no, perchè da sempre patrimonio culturale della città e parte integrante del costume di vita del popolo napoletano. E in un romanzo che ci racconta Napoli, non potevano mancare i riferimenti musicali che non si limitano al solo repertorio di canzoni classiche napoletane come quelle di Libero Bovio:
“Cchiù luntana me staje, cchiù vicino te sento.. chi sa’a cchistu mumento tu a chi pienze, che faje ..”
Ma spiazzano dai semplici motivetti trasmessi dalla radio e tanto graditi in quel periodo:
“Parlano tra loro i tuli, tuli, tuli, tulipan. Mormoran in coro i tuli, tuli, tuli, tulipan…”
a quelli più impegnativi dell’opera lirica, Puccini, l’aria di Musetta della Bohème :
“…Quando men vo… quando men vo soletta per la via, la gente sosta e mira… e la bellezza mia… tutta ricerca in me… ricerca in me da capo a piè…”
Che dire? Un romanzo che consiglio di leggere non solo per una storia davvero ben costruita, intensa e godibile ma perché questo libro non racconta Napoli, è Napoli!
Trama
Napoli 1940. Alla vigilia dell’entrata dell’Italia in guerra, dentro la bolla di normalità irreale che avvolge la città, due eventi segnano il lavoro del commissario Alberto Sorrentino, da poco stabilitosi nella nuova sede della Questura: l’arresto di un giovanissimo borseggiatore, tra la cui refurtiva spicca un ciondolo prezioso a forma di croce, e l’omicidio cruento di un ricco chirurgo, imparentato con la nobiltà napoletana e ammanigliato con pezzi grossi del partito fascista. I casi, all’apparenza molto distanti, condurranno il commissario, a sua volta segnato da una storia personale in bilico tra ricerca d’amore e voglia di solitudine, verso un’unica indagine, fino a certi locali interrati di vico San Domenico Maggiore connessi in qualche modo alla leggendaria figura del Principe di Sansevero. Alla luce degli interrogatori meticolosi che fondano il suo metodo d’indagine, nel mentre condivide ipotesi investigative con l’amico cronista e notti insonni con la donna più vera che abbia mai conosciuto, insensibile a qualsiasi sollecitazione del regime, Sorrentino arriverà alla soluzione del mistero in maniera inaspettata, ricavandola da un contesto di dolore, violenza e prevaricazione. Lo stesso al quale la guerra imminente sembra preludere.