Autori Interviste TSD

Le interviste di TSD: Michele Mozzati e “Quel blu di Genova”

Riapriamo il nostro angolo “interviste” e oggi ad aspettarci c’è Michele Mozzati con cui scambieremo piacevolmente due chiacchiere a proposito del suo ultimo libro Quel blu di Genova. Prima, però, ve lo presentiamo

Michele Mozzati, milanese, è nato a Milano nel 1950.
Da 40 anni con Gino Vignali forma la coppia Gino & Michele, che ha firmato una decina di trasmissioni televisive di successo, da Su la testa a Zelig; spettacoli teatrali, per Paolo Rossi e Aldo Giovanni e Giacomo; trasmissioni radiofoniche (Radio Popolare) e collaborazioni a giornali satirici (Tango, Cuore, ecc). Dal 1979 Gino & Michele dirigono con Nico Colonna Smemoranda. Dal 1986 sono punti di riferimento del locale cabaret Zelig, che hanno contribuito a far nascere.
Michele Mozzati ha pubblicato una quindicina di libri in coppia con Gino, tra cui le fortunate raccolte delle Formiche.
Ha pubblicato, infine, da solo due raccolte di racconti per i tipi di Skira, ispirati al pittore Edward Hopper: Luce con Muri (2016) e Silenzi e stanze (2018).
L’ultimo suo libro è un romanzo ambientato nell’800 tra Milano e San Francisco dal titolo Quel blu di Genova (La Nave di Teseo)

Iniziamo proprio dall’ultimo libro pubblicato, Quel blu di Genova. Da dove nasce la decisione di raccontare questa storia?

Mi piace pensare alle storie che nascono quasi per caso. Un giorno sono stato a visitare la casa di campagna di Jacques Prévert a Omonville-la-Petite, paesino francese sperduto sulla Manica. Era la casa in cui il grande poeta si ritirò soprattutto negli ultimi anni di vita. Nel suo studio – oggi la casa è una casa-museo – aveva un lungo tavolo su cui metteva tutte le cose che trovava in giro e che lo avevano colpito per qualche motivo. O quelle che gli venivano in mente. Un fogliettino con una frase, un sasso bianco, una pigna, una foglia morta, un cuoricino con una catenina comprato in una bigiotteria. Le sue poesie pare le scrivesse così: a seconda delle emozioni che gli procuravano gli oggetti o le parole che aveva messo sul tavolo. Ne sceglieva qualcuna e costruiva una storia. Mi piace pensare che gli scrittori abbiano una specie di tavolo di Prévert negli occhi e nella mente e che costruiscano le storie così.

In realtà questa storia è nata poco alla volta. Tutto è nato da una mia curiosità molto milanese. Volevo capire il senso di rivolta e di giustizia dei miei concittadini dell’Ottocento. Cercavo di ricostruire le piccole e grandi ribellioni agli austroungarici che occupavano la città. Sono incappato nella storia di un fallimento, forse uno dei tanti. Era legato a una ribellione mal condotta dai repubblicani di Mazzini contro gli austriaci, che anche a causa della pessima organizzazione finì molto male per i patrioti italiani che vennero arrestati, impiccati alcuni, mandati in esilio altri. Da lì poi ho costruito la fuga dei nostri due eroi che passando per Genova è finita oltre oceano.

Come ha scelto i personaggi e le loro storie?

I personaggi di Quel blu di Genova e le loro storie sono legate a ciò che ho detto prima. E forse anche un po’ a quell’intrigante gioco di oggetti e parole che ho anch’esso descritto rispondendo alla prima domanda e citando Prévert.

Se è vero che in ogni narrazione si nasconde il narratore, in quale dei protagonisti si rivede di più?

È difficile dire a quale dei tre protagonisti vorrei assomigliare o addirittura quale mi ha ispirato di più. La cosa più semplice ma anche la più veritiera è forse dire che mi sento un po’ simile a tutte e tre i protagonisti. Sono un po’ panettiere come Cesco quando dice che chi fa il pane ha molto tempo per pensare. Sono un po’ cialtrone e viziato (non dalla mia famiglia, dalla vita) come Ernesto. E forse, ma credo di poter togliere anche il “forse”, mi sarebbe piaciuto essere una donna bella, affascinante, intelligente, colta, un po’ rivoluzionaria come Cielo, che è la vera protagonista, per me, del romanzo. È che purtroppo mi sono ritrovato irrimediabilmente maschio etero…

Quanto c’è di vero e quanto invece è frutto della sua immaginazione?

Di vero c’è tutto. Di verosimile c’è tutto. Nel senso che tengo molto a sottolineare che tra vero e verosimile ormai non esiste più troppa differenza; anzi spesso sono di fatto la stessa cosa, soprattutto in questa epoca di social, ahimè. Ma la fantasia, se è ben coltivata e allenata, ci permette di godere in positivo della pochissima differenza tra il reale e il simil-reale.
Se invece devo dare una risposta più tecnica dico che la macrostoria è vera o verificabile quasi tutta. La microstoria e ovviamente romanzata i tre personaggi non sono vissuti veramente. Non so se il signor Levi Strauss avesse dei soci operativi di origine italiana, per intenderci…

Come mai un romanzo storico?

Forse semplicemente perché nei miei studi universitari ho dato tanti esami di Storia e uno di quelli che ho amato di più è stato Storia del Risorgimento. Un altro che ho amato molto è stato Storia degli Stati Uniti d’America.
E poi l’Ottocento è affascinante proprio perché è l’epoca del Romanticismo. È un’epoca così “eccessiva” che occorre maneggiarla con cura. Troppo facile, quindi assai difficile da raccontare.

Qual è il messaggio fondamentale che sottostà alla narrazione?

A parte quello che riguarda il vero e il verosimile, l’altra cosa a cui tengo è la grande utopia che vorrebbe che nell’amore e nell’amicizia non vi fosse traccia di possesso. L’amore non nasce come possesso, nasce come scambio,  e sarebbe bello che noi tutti lo vivessimo così. Ma non è vero, siamo tutti molto ingombranti verso l’altro.
Ancora: mi piace pensare a questo romanzo come in qualche modo a un inno alla libertà sia personale che storica e politica. Addirittura la celebrazione di un cambiamento epocale nel costume, sei i blue jeans sono stati per davvero una rivoluzione dei costumi.

Quanto la tecnica narrativa usata è frutto della sua esperienza di artista di teatro?

Bella domanda! Mi verrebbe da rispondere poca; in realtà mi piace molto il concetto di alto e basso, di profondo e superficiale che ho anche utilizzati negli spettacoli teatrali. Per esempio nei monologhi scritti con Paolo Rossi, assieme a Gino (parlo di quelli storici) credo ci sia molto questa tecnica. È una tecnica del racconto che mi affascina perché penso che la vita sia un continuo alto e basso.
Inoltre la tecnica di narrazione che credo si incroci un po’ con quella della scrittura anche per immagini – ma non solo per immagini  – del cinema, è la struttura portante del romanzo. Un avanti indietro nei luoghi e nella storia, delle zoomate sui personaggi, dei totali sui luoghi, il racconto nel racconto, la voce fuori campo… tutte cose  che appartengono soprattutto  al cinema, arte  che peraltro io amo molto.

Qual è il ruolo dell’ironia in questo romanzo?

In molti mi hanno detto che ci sono in Quel blu di Genova diversi aspetti ironici. E a volte addirittura comici. Sinceramente non me ne ero troppo accorto. Ma è evidente che la cosa è presente, se tutti me lo fanno notare. È che forse nei decenni ho imparato a mischiare il comico e il tragico, che sono poi  le due facce opposte della medesima medaglia.  In una persona buffa cogli sempre un fondo di grande tristezza o agitazione. Se ti fermi alla parte divertente fai i conti solo con metà della vita.

Nel romanzo il livello della lingua è duplice: da una parte parole che afferiscono ad un livello alto della lingua, dall’altro parole che invece richiamano la vulgata. Perché questa scelta linguistica?

Innanzi tutto va detto che da un lato la lingua della nostra nazione è bellissima e piena di sfumature. Le parole ma anche la costruzione delle frasi, nel nostro mondo linguistico contano tanto. Ma va aggiunto anche che nella nostra Penisola fino a un secolo e mezzo fa esistevano tanti stati con tante realtà e tante culture e lingue diverse. Queste lingue erano i dialetti. La parlata popolare è semplicemente un segmento di questo variegato mondo. Se faccio parlare un panettiere napoletano, seppur a suo modo colto, nella metà dell’Ottocento, non posso farlo parlare in modo identico a un borghese milanese, l’altro protagonista, o a una giovane donna ligure. Mi piace cercare di animare i dialoghi con le parole che vengono usate qualche volta nel parlato quotidiano. Se uno dice cazzo nella vita non può dire accipicchia nel romanzo, per esempio.

Quali sono state le fonti storiche alle quali si è riferito?

Sono quelle dei miei studi universitari  e delle mie curiosità: ho una libreria molto fornita sulla storia della mia città, ma anche sulla nascita degli Stati Uniti, e perfino sulla moda, dove ho trovato la leggenda/ storia dei jeans, per esempio. O la storia della Levi’s che un po’ ha ispirato la parte americana del mio romanzo. Come ho scritto nel libro nei ringraziamenti io d’altra parte ho sempre indossato quasi solo i Levi’s 501 senza che nemmeno la “Signora Levi’s” lo sapesse, naturalmente!… Ci sono anche, e colgo l’occasione per ringraziare il Comune di Milano, i libri che i dirigenti del Comune di Milano,  e mia madre lo era, ricevevano ogni anno in copie pressoché numerate. Erano libri sulla storia di Milano che mi sono ritrovato in librerie di famiglia e che mi hanno aiutato a capire, per esempio, le rivolte milanesi dell’Ottocento. Infine, le fonti che preferisco sono quelle dei miei occhi. Per quello, ho deciso di inserire questo romanzo pseudo storico un narratore contemporaneo. Attraverso la contemporaneità del protagonista fuori campo mi sono preso la libertà di raccontare un po’ l’America di oggi, e in parte in generale il mondo che viviamo oggi, Così si va dalle bande ottocentesche dei “Five points” di New York, all’Ikea di San Francisco o alla libreria City Lights di Ferlinghetti, passando per i primi jeans dell’Ottocento e attraverso le  canzoni di Guccini. Mi sono permesso questa libertà perché credo che forse oggi faccia bene a tutti continuare a saltare dal passato al presente e viceversa; cercare le nostre radici e vivere la nostra quotidianità tenendone conto, è un segreto per non sentirsi inadeguati rispetto a un tempo che corre più veloce di noi.

(Domande a cura di Lucia Maria Collerone)

Quel blu di Genova

Anno 1853, la rivolta di Milano. Ernesto Giudici, di famiglia bene e con quarant’anni sulle spalle, tutto aria cialtronesca e vocazione mazziniana, s’imbatte in Cesco Esposito, giovane panettiere napoletano, estimatore dei classici ma non di Ferdinando II, venuto fin lassù a vagheggiare di pizza e sogno repubblicano. Ai due in fuga dagli occupanti austriaci, tra osterie genovesi e notti nere sull’Atlantico, presto si unisce Cielo, all’anagrafe Maria Celeste Sommariva, dai capelli neri come cozze e la pelle diafana come un Cristo Velato. Sarà lei, che porta i pantaloni e va per mare come gli uomini, a trarli in salvo prima e farli innamorare poi. Ed è con loro, e una stiva piena di denim, che si imbarcherà per “La Merica” e laggiù affiderà a Levi Strauss la materia grezza di un’imminente leggenda: i blue-jeans. Restituita ai giorni nostri dalle pagine di un vecchio diario, sfogliato per noi dall’ultimo dei Giudici Esposito Sommariva, questa è la storia di un amore senza norme, di eroismi goffi e futuro oltremare, di trent’anni di “cuore e stomaco” e tumulti. E poi di tanta, tanta libertà.

Editore : La nave di Teseo + (18 giugno 2020)

Lingua : Italiano

Copertina flessibile : 208 pagine

ISBN-10 : 8893950723

ISBN-13 : 978-8893950725

Link d’acquisto cartaceo: Quel blu di Genova

Link d’acquisto e-book: Quel blu di Genova

Che ne pensi di questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.