La storia in cucina Viaggio nella storia

La cucina dei monaci a cura di Laura Pitzalis

  Oggi vogliamo proporre alla vostra attenzione una nuova rubrica: “La storia in cucina”. Una serie di articoli ci porterà alla scoperta dell’arte culinaria nei meandri della Storia, tra ricette, curiosità, aneddoti e particolarità della tavola. Siete curiosi di scoprirle con noi? Il primo articolo è stato preparato da Laura Pitzalis che ci conduce nelle cucine delle abbazie.

La cucina dei monaci

Dissodatori, costruttori, architetti, giardinieri, vivaisti, banchieri, piscicoltori, silvicoltori, apicoltori, coniglicoltori, allevatori (i cistercensi) d’immensi greggi di pecore, proprietari di aziende agricole modello e tutto questo per secoli: i monaci sono ovunque, se non all’origine di tutto. In ogni caso sono gli agenti attivi di quel che un giorno sarà l’Europa, e più precisamente l’Europa buongustaia. Afferma J. Claudian: «Quasi tutti i progressi compiuti dall’inizio del Medioevo nei diversi settori dell’economia e della tecnica alimentare, devono essere attribuiti all’opera metodica e perseverante svolta dalle istituzioni religiose». Nel Dictionnaire de gastronomie leggiamo che: «verso la fine dell’era merovingia i conventi, detentori di tutte le tradizioni gastronomiche, si moltiplicarono in Francia, dando così grande impulso all’arte culinaria». Ma come? Viene da chiederci, i monaci? Quelli dove il regime alimentare era basato sull’idea della privazione del cibo? Quelli che: il digiuno è sinonimo di spiritualità e misticismo? Quelli che: la carne è il primo alimento che deve essere bandito? Sì, proprio loro! Il fatto, però, è meno paradossale di quanto possa sembrare. I monaci, costretti a una dieta rigida e a una vita monotona, impiegavano volentieri il loro tempo a perfezionare le tecniche di preparazione di quei pochi prodotti che erano loro permessi; si concedevano inoltre qualche golosità in occasione della celebrazione di feste religiose come la Pasqua, il Natale o il giorno del santo patrono. Illuminati monaci, ricordavano che il signore pretendeva la misericordia e non il sacrificio, come tramanda un memoriale scritto l’1 agosto 1246, Legenda Trium Sociorumm: ”avvenne che una notte dormendo li frati, gridò forte uno delli frati e disse: Io muoio di fame. Et Levandosi il beato Francesco subito fè porre la mensa, et come huomo di charità et discrezione mangiò con lui, acciocchè lui non si vergognasse mangiar solo, et di sua volontà. Et etiandio tutti gli altri mangiarono. Et poiché hebbero mangiato, disse il beato Francesco ai frati: Frati miei, cosi dico a voi, che ciascuno consideri sua natura et dia al suo corpo la necessità sua acciocchè possa servire allo spirito: perciochè dal soperchio mangiare, che ne noce al corpo et all’anima, noi siamo tenuti a guardare; cosi etiandio dalla soperchia astinentia; perciochè il Signore vuole la misericordia et non il sacrificio”. Inoltre il mondo monastico si presta molto naturalmente, attraverso i frequenti viaggi, alla trasmissione delle tecniche, dei “segreti” e dell’abilità manuale. Solo raramente rischia l’estinzione della propria stirpe, come spesso accade nelle famiglie durante i sanguinosi secoli del Medioevo. È in grado di accumulare riserve grazie all’arte di coltivare le terre e alle privazioni dei monaci. Commercializza poco, almeno all’inizio, i propri prodotti per cui cosa fare con l’orzo se non la birra? E con l’uva se non il vino? E con le mele, se non il sidro? E con il miele, se non l’idromele? E con la cera, se non candele per le serate di studio? Cosa fare infine con il latte prodotto in abbondanza, se non il formaggio? D’altra parte, anche il vocabolario dell’epoca ci trae in inganno. Nell’immaginario collettivo li vediamo cibarsi di erbe e di radici del loro orto. Ma per radici ed erbe si deve rispettivamente intendere da una parte tutto ciò che cresce sottoterra (carote, ravanelli, rape, scorzonera ecc.) e dall’altra tutti i vari ortaggi (cavoli, porri, insalate ecc). Il termine fave designa invece l’intera famiglia delle leguminose. Tutti questi prodotti erano cucinati con l’olio nelle regioni meridionali e con il grasso (spesso di castrato) al nord; venivano accompagnati da uova al pepe, la domenica della Quinquagesima, e dal formaggio della “pietanza” negli altri giorni. Faceva loro da sostegno il pane fatto in casa (panis familiae), il biscotto o fetta biscottata (biscoctus) oppure il pane cotto sotto la cenere (subcinericium). Li rinfrescava inoltre la frutta di stagione (a Cluny ogni monaco riceveva cinque grappoli d’uva a pranzo); erano infine annaffiati da latticini come lo yogurt e il latticello. Una simile alimentazione corrispondeva quindi alle diete vegetariane di oggi. La carne invece è spesso proscritta o rigidamente razionata. All’epoca della conquista normanna (1066), uno dei priori dell’abbazia di Winchester riuscì a dissuadere i suoi fratelli dal consumare carne, convincendoli a mangiare, invece, il pesce; ma il cronachista precisa che l’invito fu compensato dalla squisitezza degli eccellenti piatti preparati all’uopo: «Fecit exquisita piscium parari cibaria» (D. Knowles, The Monastic Order in England, Cambridge, 1950, pagg. 456-465). Dobbiamo dire però che durante i primi secoli del Medioevo l’alimentazione dei monaci inglesi era considerata, ovunque in Europa, eccellente e abbondante: in effetti gli inglesi furono per molto tempo, e fino agli albori del secolo scorso, dei grandi mangiatori, dei buoni bevitori e dei gagliardi buontemponi! L’ottima reputazione, di cui godevano la cucina e i prodotti inglesi, scomparve solo sotto i colpi della rivoluzione industriale e con la salita al trono della regina Vittoria. La carne tende a ricomparire a partire dall’XI secolo, anche perché più consistente comincia a essere la presenza del ceto aristocratico tra i religiosi. Nei giorni di festa, che non sono pochi nel calendario liturgico, la carne, soprattutto di maiale, è presente nei pasti dei monaci cucinata in maniera differente, compare anche nelle dispense, conservata sotto sale, essiccata o insaccata. Gli uccelli, essendo stati creati contemporaneamente ai pesci, non sempre vengono considerati carne ed è quindi lecito cibarsene, mentre si trova ogni tipo di pesce compresa la trota (a Natale). A Cluny si vedevano arrivare perfino le cozze: tenera leccornia, ogni monaco ne riceveva… una. Per quanto riguarda le bevande i monaci bevevano birra, la cui produzione fu a lungo monopolio dei conventi. La prima relazione scritta riguardante la sua fabbricazione risale al IX secolo ed è opera del priore di Saint-Gall in Svizzera. La parola francese houblon, cioè luppolo – l’anima della birra -, appare per la prima volta in un documento dell’abbazia di Saint-Denis nel 768: “Cervesia humulina”, Cervogia di luppolo. Oltre alla birra (dei trappisti, dei francescani ecc.) troviamo l’assenzio al miele, l’idromele (d’origine greca e romana, che si beve ancora oggi in Polonia), il sidro e soprattutto il vino. Nel rito cristiano è necessario il vino per celebrare la messa. Vescovi e monaci, proprio per evitare di importare con grandi rischi e spese vini provenienti da regioni lontane, si fecero, in modo del tutto naturale, promotori della viticoltura: i monaci, autorizzati da san Benedetto a bere vino, piantarono la vite in ogni luogo in cui il terreno sembrava più o meno adatto «il ruolo dei monaci nella selezione dei vitigni e il perfezionamento della vinificazione è stato predominante fino al XVIII secolo» (J. Claudian). Si beveva vino non solo al naturale, ma anche aromatizzato (all’anice, al rosmarino, all’ assenzio: come aperitivo), o bollito e speziato con la cannella, le mandorle dolci, con un po’ di muschio e di ambra o ancora con un’ aggiunta di miele e infine aromatizzato con chiodi di garofano, pepe e noce moscata. Anche lo champagne fu inventato, secondo la leggenda, da un monaco benedettino Pierre Pérignon, conosciuto come Dom Pérignon e il cui nome è legato alla storia e al marchio di uno degli champagne più conosciuti al mondo. Si narra che durante un pellegrinaggio presso l’abbazia benedettina di Saint-Hilaire, Pérignon avesse scoperto un metodo di vinificazione per rendere il vino frizzante; quando tornò al suo monastero si mise a sperimentare il sistema e insegnò la tecnica ad altri monaci. In realtà Pérignon non inventò lo champagne per come lo conosciamo oggi, anche se gli va comunque riconosciuto il merito di avere lavorato a lungo sul vino per migliorarne le qualità. Il mito è dovuto soprattutto a un altro monaco del monastero, Dom Groussard, che nel 1821 attribuì a Dom Pérignon l’invenzione, probabilmente con l’obiettivo di far guadagnare notorietà all’abbazia. Lo stesso alimentò il mito secondo cui Pérignon fosse stato il primo a utilizzare tappi di sughero per chiudere le bottiglie, e quello secondo cui fosse in grado di riconoscere qualsiasi tipo di vigneto assaggiando un solo acino d’uva. E sempre a loro dobbiamo gli alcolici: grappe, acquaviti e liquori. Un tempo, anche se ghiacciata, l’acquavite non era certo una delizia per le papille. Era quindi necessario temperarne il gusto con l’aggiunta di piante aromatiche, noccioli, bacche e radici. I monaci erano gli unici a possedere un laboratorio di farmacia, gli unici a raccogliere i fiori in montagna e nei boschi, a dissotterrare le polpose e odoranti radici, e di conseguenza solo loro erano in grado di fabbricare liquori. Inoltre erano i soli a produrre i vini speziati e aromatizzati alle erbe, che vedremo fiorire alla fine del XVIII secolo con il nome di vermut, un prodotto così tipicamente italiano al punto di avere un bel nome tedesco. La cucina dei monasteri, come si vede, è un viaggio affascinante, che porta a fantasticare di intrugli e alchimie nascoste, accostamenti e sviluppo delle pietanze e dell’arte cibaria, senza gas, abbattitori, forni a convenzione, frigoriferi, affettatrice, mixer, stendi pasta, impastatrice, sottovuoto, sifone, scavini, pela verdure. Proprio in questi luoghi dove l’innalzamento dello spirito, attraverso i digiuni, sovrasta il piacere che il cibo dona al corpo, sono stati trascritti e codificati innumerevoli manuali di cucina. Precursori dello slogan “dalla terra alla tavola”, i monaci hanno insegnato l’arte della coltivazione e della trasformazione in cibo, di prodotti della terra arrivati da ovunque. Non diventa supposizione, quindi, affermare che nel mondo monastico vi era un’attenzione culturalmente alta del cibo, un’attenzione al reperimento delle risorse alimentari attraverso un’oculata organizzazione e gestione del sistema di raccolta delle materie prime e del loro rifornimento. Il principio della privazione presuppone, inoltre, la disponibilità dei beni di cui privarsi e all’interno delle cucine del convento la carne e altri prodotti non mancano mai perché gli ospiti e i pellegrini sono esonerati dalle diete e dai digiuni imposti dai regolamenti ecclesiali. Parecchi di questi motivi ci inducono, quindi, a credere anzi ad affermare che la cucina dei cibi, il bon ton e la relativa educazione a tavola hanno avuto origine tra le mura dei monasteri e delle abbazie.   FONTI:   http://ora-et-labora.net/monachesimocucinadeimonaci.html https://www.taccuinigastrosofici.it/ita/news/contemporanea/dieta-del-benessere/Cucina-monastica.html https://paneefocolare.com/2016/05/09/la-tavola-dei-monasteri/ http://web.tiscali.it/manzonimottola/alimentazione_dei_monaci1.htm https://www.tapatalk.com/groups/gruppodifazio/il-cibo-dei-monaci-t27072.html https://www.ilpost.it/2015/09/24/dom-perignon-champagne/
Che ne pensi di questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.