La storia in cucina Viaggio nella storia

Nella Storia ci vuole sempre un po’ di spirito… di patata!

Che le patate arrivino dal nuovo mondo lo sappiamo più o meno tutti. Forse è invece meno noto che la loro diffusione come cibo dall’altra parte dell’oceano non fu assolutamente immediata, dopo la scoperta delle Americhe… Ma andiamo con ordine. La patata è originaria dell’America meridionale, in particolare della regione delle Ande, dove era coltivata probabilmente già da duemila anni prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo. Non furono dunque i primi viaggi nel Nuovo Mondo a far scoprire questo tubero, che venne invece notato nella prima metà del 1500 in Perù dai conquistadores spagnoli che la introdussero in Europa. Venne portata in Europa inizialmente come curiosità botanica, mentre il suo successo come alimento tardò ad arrivare, soprattutto per la diffidenza verso ciò che cresce sottoterra. Anche per questo si fecero alcuni esperimenti che portarono a mangiarne non i tuberi, ma le foglie e i frutti che però sono tossici e indigesti peggiorando la fama della patata. Come cibo fu essenzialmente snobbata per più di un secolo, salvo poi lentamente affermarsi come sostituto del pane, essendo, in quanto tubero sotterraneo, meno soggetta rispetto al grano alla distruzione da parte degli eserciti che attraversavano i campi di mezzo continente all’epoca delle guerre di successione. A cambiare il corso della storia delle patate, si può dire che siano stati Federico il Grande re di Prussia e Antoine Parmentier. Farmacista militare, Parmentier viene preso prigioniero dai prussiani durante la guerra dei Sette anni (1756-1763) e sopravvive alla fame grazie alle patate. Infatti mentre in Europa il tubero è ancora considerato un cibo adatto solo ai maiali, nel nord della Germania le patate salvano un intero popolo dalla carestia. In realtà anche i sudditi di Federico il Grande redi Prussia non erano affatto propensi a inserire questo volgare frutto della terra nel loro menù quotidiano ma il re decide di piantare delle patate nel suo giardino mettendo, addirittura, dei soldati a guardia del raccolto. Visto che l’ortaggio ha l’aria di essere prezioso, qualcuno lo coglie e decide di assaggiarlo. Il gioco è fatto, la patata entra così nell’uso comune dei tedeschi e da allora è uno degli alimenti base della cucina germanica. Questa la leggenda, ma più concretamente sono un inverno particolarmente duro e una tremenda carestia a far scattare l’interesse concreto dei prussiani, con una piccola spinta da parte di un sovrano molto pragmatico; il 24 marzo 1756, Federico II  firma il celebre “Kartoffelbefehl”, un decreto con il quale viene imposta la coltura intensiva della patata. Un’ottima idea visto che con gli eserciti che vanno e vengono sulle terre coltivate tutto il resto è spesso da buttare. Il tubero, che cresce sotterraneo, invece è perfetto per le esigenze di una nazione sempre in guerra. I tedeschi gliene sono, ancora oggi, molto grati. Dunque Parmentier assaggiò le patate come rancio dei carcerati. Rientrato in patria si dedicò alla sua coltivazione con l’idea fissa di promuovere anche in Francia la coltivazione di un prodotto che è una vera e propria manna dal cielo. Impresa non facile anche perché nel 1748 il Parlamento di Parigi ha addirittura vietato la coltivazione del tubero ancora considerato velenoso. Ma Parmentier insiste asserendo che questo frutto della terra può davvero salvare dalla fame intere popolazioni e cerca in ogni modo di farla entrare nell’uso comune; fra l’altro in quegli stessi anni i cattivi raccolti hanno fatto salire alle stelle il prezzo del pane. Con il beneplacito di Luigi XVI, noto per la sua curiosità in campo scientifico e naturalistico, il farmacista avvia la coltivazione della patata nella piana dei Sablons nei pressi di Neuilly. Nel 1778 lo studioso invita alcuni importanti personaggi, fra cui il chimico Lavoisier e Benjamin Franklin (all’epoca ambasciatore in Francia), a una cena di gala il cui menù tutto a base di  patate; il successo è notevole ma la strada verso il successo ancora molto lunga. Però Parmentier non demorde e nel maggio del 1786 si presenta nei giardini di Versailles dove riesce ad avvicinare il re e la regina a cui offre dei fiori di patata. Il re apprezza, i cortigiani sono incuriositi, ma ormai l’Ancien régime è agli sgoccioli e i sovrani, già molto screditati, non possono essere il veicolo per la diffusione su larga scala dell’ortaggio. Nonostante la rivoluzione Parmentier continuerà i suoi studi e le sue ricerche in campo scientifico e quando muore, nel 1813, è famosissimo e il suo nome sarà per sempre legato a questo piccolo e insignificante tubero che ha sfamato tante persone. Tante le ricette a base di patate ispirate al celebre farmacista, fra cui il “potage Parmentier“. Piccola curiosità: sulla tomba di Federico II di Prussia (nel grande parco di Potsdam) ci sono sempre mazzolini di fiori e patate, il dono più grande fatto dal re al suo popolo. E in Italia? In Piemonte la patata si diffuse largamente grazie all’opera dell’avvocato e agronomo Giovanni Vincenzo Virginio (1752-1830), che “scoprì” il tubero grazie alle truppe napoleoniche. Virginio si convinse della necessità di diffondere la patata nella regione, all’epoca disastrata da anni di guerra. Nel 1803, per la prima volta, la patata giunse sulla tavola dei piemontesi grazie anche alla sponsorizzazione del governo francese e, soprattutto, grazie all’operato dello stesso Virginio che, per convincere i suoi compatrioti, arrivò a regalare le patate e a impegnare gran parte delle sue sostanze per coltivarle e distribuirle gratuitamente. Quando tornarono i Savoia, nel 1814, gli fu riconosciuta una pensione per l’operato di beneficenza svolto fino ad allora; tuttavia, anche con il sussidio statale Virginio morì povero e dimenticato. Dici patata, dici gnocchi, e dici “giovedì, gnocchi”: se non ci fosse stato Alessandro Volta questo detto non sarebbe possibile, perché non sarebbero esistiti nemmeno proprio gli gnocchi. Eh sì, avete proprio capito bene: all’inventore della pila e scopritore del metano dobbiamo anche gli gnocchi di patate. Quando Antoine Parmentier fece conoscere le patate alla corte di Luigi XVI, infatti, era presente anche Volta si appassionò tanto al disprezzato tubero da portarlo in dono alla famiglia dopo un viaggio in Francia. Nella perplessità generale, spiegò che quello era un ortaggio commestibile, di facile produzione e molto apprezzato anche dalla regina Maria Antonietta che ornava i suoi capelli con fiori di patata, ed iniziò a coltivarlo nelle sue proprietà a Camnago, decantandone le virtù e contribuendo alla sua diffusione in Italia. Da scienziato non solo  dimostrò che non solo le patate non erano tossiche ma, mescolate all’impasto tradizionale, rendevano più leggere le paste fatte in casa, fino ad allora costituite solo da farina di grano. (Ricordiamo che gli gnocchi, nati in epoca rinascimentale, erano infatti inizialmente realizzati con mollica di pane, latte e mandorle tritate e venivano chiamati zanzarelli, mentre solo dal Seicento divenne popolare l’impasto di farina, acqua e uova a cui Volta aggiunse le patate.) E le patatine fritte? Nonostante gli americani le chiamino “french fries”, la Francia con la paternità delle patate fritte c’entra poco. In Francia le “frites” divennero popolari solo dai primi del 1800 in poi, tanto che i chioschi che le vendevano per strada si trovavano in tutto il centro di Parigi: è probabile che il termine “french fries” arrivi negli Stati Uniti grazie a qualche viaggiatore che ebbe il bene di assaggiarne una volta un cartoccio. La paternità andrebbe al Belgio. La storia che confermerebbe l’origine belga delle patate fritte è affascinante. Si svolgerebbe a fine ’600, nella valle del fìume Mosa, tra Dinant e Liegi; gli abitanti del luogo, in particolare i più poveri, erano soliti mangiare piccoli pesci, pescati nel fìume e fritti. Ma con l’arrivo dell’inverno, il fiume sovente si ghiacciava, impedendo la pesca. Ecco allora l’idea di tagliare a pezzetti le patate, imitando almeno in parte la forma dei piccoli pesci, per poi friggerle. L’Olanda non ha una storia così bella a sostegno della propria causa, ma dalla sua ha invece il recente, grande successo di diverse catene di fast food dedicate proprio alle patatine: un business tuttora ‘ in grande crescita anche nel nostro Paese, che ha dato spunto anche a molte creazioni italiane. La produzione dl “chips”, patatine fritte a fette molto sottili, poi diventate un prodotto soprattutto industriale, è iniziata invece negli Stati Uniti: fu il cuoco George Crum che, il 24 agosto del 1853, per accontentare un cliente dell’hotel in cui lavorava a Saratoga Springs, gli propose le patate fritte tagliate in questo modo. Senza sapere di avere inventato un successo planetario. Ora direi che per completare il menù a base di patate, un bel bicchierino di aquavit ci sta proprio bene! Nel corso dei secoli i popoli del mondo hanno distillato, per ottenere delle bevande alcoliche, ciò che avevano a portata di mano. In Paesi come Spagna, Francia o Italia l’uva e i suoi derivati; nei Paesi nordici con un clima non favorevole alla vite cereali, frutta e, dopo la loro diffusione, le patate. In Svezia con il frumento si è prodotta per due secoli l’aquavit, ma il raccolto era spesso scarso o di cattiva qualità. Nel 1700 si scoprì che la patata poteva costituire un’alternativa più affidabile e da allora divenne la base fondamentale per la produzione di aquavit. Più o meno la stessa cosa è successa con ’gli schnapps, alcolici bianchi o aromatizzati prodotti in Olanda, Germania, Svizzera e Austria, e ancora in Polonia e nella Russia zarista i tuberi non tardarono a imporsi nella lavorazione delle vodke locali. In Giappone si è affermato invece lo shò chin: inizialmente consumato dai ceti popolari, oggi si beve in tutto l’arcipelago, puro o come ingrediente di vari cocktail. Il modo di dire “spirito di patate” deriva proprio dal fatto che questi distillati vennero in origine considerati ripieghi di scarsa qualità: nel tempo però le cose sono cambiate e ad esempio una vodka inglese di patate è da anni considerata una delle migliori in commercio.
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