Narrativa recensioni

La mannaia. Il macello della peste – Paola Presciuttini

Trama Nella vivace e brulicante Firenze del Trecento, fiorente di grandi opere urbanistiche, il beccaio Torello del Verro ha impiegato un’intera vita a divenire un pezzo grosso della propria corporazione. Arte, quella dei macellatori di animali, che mette quotidianamente a contatto col sangue e i maleodoranti cascami di carne, ma capace di far sentire il coltello dalla parte del manico. Il primo figlio Orso l’ha dovuto dar via. Il secondogenito Lupo, nato con una spaventosa deformazione al volto, nasconderlo nella cantina del nonno Gerundio, che ne ha fatto un sapiente alchimista. Il terzo figlio Falco, sano e bello, lo segue nella professione. Per molti anni nel palazzotto del beccaio la vita scorre rigogliosa e serena, mentre in città infuriano le lotte tra guelfi bianchi e guelfi neri. Allo scoccare della metà del secolo tutti e tre i figli saranno chiamati al capezzale di Torello. Il suo sarà l’ultimo funerale che si celebrerà a Firenze per morte naturale. Venuta dalla città di Gaffa per la via del mare, la Mannaia ha risalito l’Italia ed è pronta per la mietitura. Lupo, unico a intuire il pericolo della Peste in arrivo, convince i famigliari a rifugiarsi nella cantina di Ponte a Mensola. Il primo a scomparire sarà Orso, tornato in città per trovarvi la morte, seguito dalla pia moglie Vanna che per esorcizzare la paura si unirà alle orge dei notabili fiorentini. Falco sì farà frate eremita, mentre Lupo scenderà a Firenze per formulare brillanti ipotesi sulle cause infettive del morbo e troverà la città devastata: porte sprangate, carri carichi di morti, tavolate di ubriachi e donne seminude. Le porte dell’Inferno si sono schiuse… Recensione di Giulia Bastiglia
“È il mio mestiere. Il mio mestiere”. “Tuo padre era conciatore, io sono fornaia, perché proprio il beccaio dovrebbe essere la tua Arte? Perché in questa famiglia i figli non seguono le orme dei padri come in tutte le altre, dico io!?” “Voglio diventare beccaio per il coltello. E poi, soprattutto, per via del mio nome. O macello o vengo macellato, così è la sorte”. (…) Sapeva che in quel corpo minuscolo c’era più forza di quanta ne avesse vista in tutti gli uomini che nella sua vita aveva conosciuto. Lo aveva visto sopravvivere alla morte, alla fame, crescere mangiando briciole,  imparare a camminare sul pavimento reso scivoloso dalla farina, alzare sacchi di pane più grandi di lui, nuotare nell’acqua del fiume salvandosi dai mulinelli con la sola forza delle braccia gracili. Era testardo e cocciuto. Tra tutti i buoni mestieri che avrebbe potuto imparare nelle botteghe della città si era andato a scegliere il più vergognoso, il meno amato dal Signore. E poi i beccai puzzavano di carne marcita ed erano uomini violenti ed ignoranti come le capre che sgozzavano.
Inizia così il racconto sulla vita di Torello detto del Verro e dei suoi discendenti; lui, futuro beccaio in una Firenze trecentesca in pieno fermento politico, economico e urbanistico; le mogli Berta e poi Amelia che gli doneranno i suoi tre figli, Orso, Lupo e Falco, dai destini che si snoderanno in modi incredibilmente diversi; unica compagna fedele e sempre presente La Morte. L’autrice ci accenna ai primi anni di vita di questo ragazzo tenace e coraggioso, che cercherà di costruirsi un’esistenza degna e prosperosa in un’epoca in cui niente era facile, in cui vigeva la legge della sopravvivenza, in cui o si era forti o si periva. E attraverso un linguaggio evocativo, dai termini desueti ma assolutamente consoni all’atmosfera, ci ritroviamo negli anni che precedono la “Grande Mattanza” del 1348, durante la stessa, e anche dopo.
…Come suonava la Terza tutti iniziavano a spentolare, sbatacchiare, muoversi, vociare, le strade piene di grida, rimbombi, sciacquii, martelli che battono sulle incudini, cote che strusciano sui coltelli, stoffe che sbattono sulle pietre, donne che chiamano gli avventori, uomini che si minacciano per una trottolata di dadi lanciati con troppa lentezza. E lì, invece, lì su quella sponda di un fiume opulento come un vecchio dopo una scorpacciata di frittelle di San Giuseppe, su quella sponda tutto sembrava sospeso in un ritmo invisibile. Rumori leggeri e improvvisi, il canto di un cuculo in lontananza, lo svolazzare irreale delle cinciallegre, il salto di una trota che sbatte la coda facendo schizzare bilie d’acqua intorno a sé, il frinire ossessivo delle cicale al sole. Anche il cigolare costante delle ruote del carro pareva far parte di quel concerto, come il sottofondo del liuto fa da letto alla voce del cantante. Torello e Gabriello, immersi in quella magia, no aprirono bocca per tutto il tragitto. Solo il Pecora, ogni tanto, lanciava un incitamento al cavallo e poi, beato, distendeva le labbra in un sorriso.
Le descrizioni della vita quotidiana di quell’epoca sono straordinarie, esplicate attraverso un linguaggio dal tono poetico, armonioso e schietto: v’è il contrasto della vita caotica della città contro una natura ancora contemplabile e ispiratoria, v’è la profondità di pensiero contro le debolezze e le contraddizioni dell’essere umano, v’è la speranza di un futuro migliore contro la spietatezza degli eventi quotidiani.
 La città ci aveva messo centinaia di anni, uomini e denari a farsi bella, e per incontrarsi con chi? Con La Morte in persona!
Vivremo insieme ai protagonisti il divenire degli avvenimenti, le lotte intestine, le guerriglie, gli intrighi di Palazzo, le esistenze dei ricchi e dei poveri e, protagonista assoluta la Peste, che scatenerà in ogni singolo attore una reazione diversa: si riscoprirà l’accoglienza e l’altruismo nel medesimo modo in cui riemergeranno aberrazioni comportamentali tipiche dell’essere umano. Un capolavoro non soltanto per quanto concerne i dettami storici ma soprattutto per le inevitabili riflessioni umanistiche che il lettore si ritroverà ad affrontare. Per chi conosce i fatti storici, troverà in questo racconto risvolti psicologici non indifferenti, e per chi la storia la conosce superficialmente troverà lo stimolo (vocabolario a portata di mano) ad approfondire e a vedere diverse prospettive, uscendone assolutamente arricchito e irrimediabilmente intrigato.  
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