Autori Classici

Omero – Odissea

a cura di Maria Marques Il mio nome è Odisseo. Siete perplessi che sia proprio io a parlarvi? Confesso che anche io sono un poco sorpreso, solitamente lo faccio per interposta persona, per mezzo di un poeta ,Omero, che ha raccontato il mio viaggio di ritorno a casa ,una volta conclusa la guerra di Troia. Si, sono consapevole che per voi Omero non sia esistito e che forse siano stati più poeti a narrare le mie avventure e che poi, uno tra loro, abbia avuto l’idea di fonderle in un poema in versi. Quella che voi chiamate “questione omerica” non mi interessa, la mia persona appartiene ormai all’immortalità della cultura occidentale.
“L’uomo ricco di astuzie raccontami, o Musa, che a lungo errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia di molti uomini le città vide e conobbe la mente molti dolori patì in cuore sul mare lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi”
In questi versi è racchiusa tutta la mia storia. Sono un sovrano, un guerriero, un marito ed un padre. Tra la fine della guerra di Troia ed il mio ritorno a casa trascorsero venti anni. Venti lunghissimi anni durante i quali, con i miei compagni viaggiai alla scoperta del mondo e di genti che nessuno aveva mia visto prima:i Lotofagi, i Lestrigoni, le terribili Sirene che ammaliavano i marinai con il loro canto ed i Ciclopi, giganti con un occhio solo, che vivevano senza rispettare le leggi dell’ospitalità e senza timore degli dei. L’avventura con i Ciclopi mise a dura prova la mia intelligenza ed anche la mia vita. Quando Polifemo, chiese il mio nome, con uno dei lampi di genio per cui vengo ricordato dissi che era “ Nessuno”. Dopo il suo accecamento e la fuga disordinata verso la nave, la mia intelligenza si trasformò però in superbia ed urlai al gigante:
“Ciclope, se qualche uomo mortale ti chiede dello sconcio accecamento dell’occhio, digli che ad accecarti fu Odisseo, distruttore di rocche, il figlio di Laerte che abita ad Itaca”
Grave errore. Praticamente gli diedi oltre al nome, il mio indirizzo, come direste voi, e l’ira di suo padre Poseidone, si scatenò contro di me ed i miei uomini. Discesi nell’Ade per interrogare l’indovino Tiresia, ma altre ombre attirarono la mia attenzione e riflettei a lungo su quanto mi disse Achille.
“ Non abbellirmi illustre Odisseo, la morte! Vorrei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba; piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti”
Strane parole che non compresi subito. Il mondo in cui vivevamo era diverso dal vostro; la forza e l’onore erano le virtù in cui dovevamo eccellere, per poter avere rilevanza sociale. Dovevamo essere forti fisicamente per sopraffare e difendere, dovevamo avere coraggio e non temere la morte. Anzi l’unica cosa che dovevamo temere era la morte senza onore, e proprio Achille, il migliore tra gli Achei, ripensando alla propria vita, valutava diversamente i valori che ci erano stati insegnati? Ci sono poi incontri che sono scolpiti nel mio cuore, come sulla pietra. Quando finalmente ,grazie all’aiuto dei Feaci riuscii a raggiungere Itaca, nascondendo la mia vera identità camuffato da vecchio ,per una di quelle situazioni bizzarre in cui il fato ci mette lo zampino ,ebbi modo di incontrare mio figlio. Inutile dire che dopo aver parlato con lui, il mio cuore non resistette a lungo e mi feci riconoscere.
“Telemaco, non è da te stupirti eccessivamente e meravigliarti che tuo padre sia a casa. Mai più verrà un altro Odisseo qui…”
E’ stato un momento che non dimenticherò mai, come se mio figlio nascesse una seconda volta davanti ai miei occhi pieni di lacrime di gioia e commozione. Quante parole non dette, quante emozioni travolsero i nostri animi, finalmente felici di potersi guardare negli occhi: padre e figlio, il futuro della mia stirpe dinanzi a me, ormai un giovane uomo. E noi due, padre e figlio, insieme, tessemmo il piano per attuare la vendetta contro i Proci. Entrare nella propria casa in veste di mendicante, aggirarsi tra servi che ignorano chi sei e ti trattano con malcelata sopportazione mi fece provare la strana sensazione di essere un estraneo. Eppure qualcuno riconobbe la mia voce :
“..scodinzolò e piegò entrambe le orecchie, ma al proprio padrone non poté avvicinarsi”
Fu l’unico momento in cui sentii veramente il peso dell’essere in incognito, non poter accarezzare Argo, il mio cane, per l’ultima volta, strofinargli il muso e sussurrargli quelle buffe parole che gli uomini scambiano con i propri animali, pensando di essere compresi e che a loro manchi solo il dono della parola. Devo raccontarvi dei pretendenti alla mano di mia moglie, i Proci, signori e principi di Itaca e delle isole vicine. In greco antico erano indicati come “mnesteres” dal verbo “mnesteuo” che significava corteggiare, in latino fu tradotto con il verbo equivalente precor e da li derivò il nome Proci. Il desiderio di vendetta covava nel mio cuore mentre li osservavo ,scrutavo i loro comportamenti trattenendo l’ira ed aspettando il momento migliore per colpire. Alla fine il pretesto me lo offri mia moglie ,annunciando che avrebbe sposato chi fosse riuscito a tendere il mio arco ed a scoccare una freccia attraverso dodici anelli delle scuri. Ero preoccupato? Si, i Proci erano centootto e dalla mia parte avevo solo Telemaco, anzi mi correggo ,ero solo, non conoscevo quanto potevo fidarmi di mio figlio, ancora senza esperienza di un vero combattimento. Il mio animo gridava solo vendetta mentre la mente elaborava la trappola perfetta, da cui nessuno avrebbe potuto sfuggire. Altra parola importante è stata in quei momenti, la fiducia. Sono stato costretto a dare fiducia a due servi, un porcaro ed un pastore. Io, che sono un re, un signore, fui costretto ad affidarmi a loro; a volte la vita traccia e segue strani percorsi, o forse è la mia intelligenza che sa piegarsi alle necessità. I Proci, uno dopo l’altro fallirono la prova e seppur deriso, chiesi di partecipare alla gara; nessuno vi prestò attenzione ma fu come se una nube nera si abbassasse sulla reggia a celarla: la morte incominciò a volteggiare su tutti noi. Afferrai l’arco e finalmente mi sentii a casa. Le mie mani strinsero il corno, lo accarezzarono in una sorta di muta preghiera agli dei, perché appoggiassero il mio agire, lo controllai, tesi il nerbo per saggiarne l’elasticità e scoccai la freccia, che trapassò tutti gli anelli. Le urla e le derisioni morirono nel silenzio, Telemaco fu al mio fianco, incoccai un altro dardo e lo scagliai contro Antinoo, il più superbo dei Proci, togliendogli la vita mentre levava una coppa d’oro alle labbra. I compagni vedendolo cadere balzarono in piedi urlando, ma la mia ira repressa, la voce della mia vendetta, proruppe dal petto con forza , sovrastandoli:
“Cani, non pensavate che sarei mai venuto reduce a casa dalla terra di Troia…”
Fu una carneficina. Per la mia ira parlò solo il mio silenzio: morte per tutti senza distinzione tra tracotanti, insolenti o gentili, morte senza pietà, senza a ascoltare suppliche…solo il silenzio infine avvolse la grande sala, intrisa di sangue e di corpi fissati per sempre nel momento magico della gioventù. Adesso siete anche voi silenziosi, forse spaventati, ma ve lo dissi all’inizio che ero un guerriero e come tale dovevo ristabilire l’ordine all’interno della mia isola, riaffermare il mio ruolo di capo, ma per rasserenare gli animi, posso ricordarvi che sono anche un uomo che ha incontrato ed amato donne eccezionali. Circe la maga, è stata misteriosa e seduttrice a tal punto da costringere i miei compagni a ricordarmi che qualcuno mi aspettava nella dimora paterna e Calipso ,una ninfa, mi aveva persino offerto il dono dell’immortalità se fossi rimasto con lei nella sua isola. Eppure le lasciai entrambe, per mia moglie Penelope, bellissima ai miei occhi, la madre di mio figlio. Lei era il mio specchio quanto ad intelligenza, era abile a tessere, obbediente , silenziosa e rispettosa dell’autorità maschile. Forse queste non vi sembreranno qualità apprezzabili in una donna, ma nel mio mondo lo erano e significavano un focolare e casa. Quando ormai tornato padrone della mia identità mi presentai a lei, Penelope fu così diffidente che fui costretto ad accusarla di avere “un cuore di ferro” e sorrisi quando ordinò alla vecchia nutrice di portare il letto nel portico perché potessi riposare. In ogni famiglia ci sono piccoli segreti, custoditi tra marito e moglie, ed il nostro era appunto il talamo che avevo costruito usando come base il tronco di un ulivo, quindi impossibile da spostare. Questa è la mia storia. Io sono Odisseo, figlio di Laerte, se vorrete leggere di me, vi darò le indicazioni per trovarmi:
“Abito Itaca aprica: un monte c’è in essa il Nerito sussurro di fronde, bellissimo: intorno s’affollano isole molte, vicine una all’altra, Dulichio, Same e la selvosa Zacinto. Ma essa è bassa, l’ultima là in fondo al mare verso la notte: l’altre più avanti verso l’aurora e il sole. Aspra ,ma buona nutrice di giovani e io nulla più dolce di quella terra potrò mai vedere”
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