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Mangiare con gli occhi, divorare con lo sguardo: il cibo nell’arte

Articolo a cura di Maria Marques Mangiare con gli occhi, divorare con lo sguardo… il nostro comune modo di esprimerci è tempestato da locuzioni gastronomiche che legano il cibo al senso della vista prima ancora che al gusto. Per questo diventa protagonista dei dipinti e nell’arte è sempre stato rappresentato in varie forme. Fra banchetti e nature morte, nel corso dei secoli, tanti artisti ci hanno regalato veri e propri capolavori, e ci hanno anche fornito preziose informazioni su come si mangiava in passato e quali fossero gli alimenti più diffusi. Partendo dalle scene di caccia dei graffiti preistorici, passando dai mosaici pompeiani e bizantini, fino alle opere più famose del Rinascimento come “L’ultima cena”, il cibo ha sempre occupato un posto di rilievo, destinato a comunicare all’osservatore la natura del quadro (religiosa, profana, ecc.) Le prime rappresentazioni di cibo (oggi le chiameremmo nature morte) della storia dell’arte sono romane, e sono le Xenia, cioè doni ospitali: essi erano dipinti direttamente sulle pareti della casa e rappresentavano i doni di benvenuto per gli ospiti (un po’ come negli alberghi moderni in cui agli ospiti si fa trovare in camera, all’arrivo, un cestino di frutta in segno di benvenuto). Li troviamo negli affreschi nelle ville pompeiane dove sono raffigurati fichi, noci, pere, ciliegie, uva, miele, formaggi, e del latte con i vasi, cacciagione, pane e vino. Il famoso Canestro di fichi della villa di Poppea a Oplontis ricorda quanto questi frutti fossero importanti nella dieta degli antichi romani. Alle Xenia si aggiungono i mosaici pavimentali asarotos oikos (letteralmente, Pavimento non spazzato), diffusi dal II sec a.C. fino al II d.C., una sorta di pavimento mimetico raffigurante i resti di cibo caduti a terra, che non venivano raccolti prima della fine del banchetto perché ritenuti sacri ed erano destinati ai parenti defunti. Ma se nell’arte romana e nei mosaici pompeiani, la rappresentazione del cibo è solo fine se stessa, non rimanda cioè ad altri significati se non quelli di carattere ”nutrizionale” o estetico, nel Medioevo i cibi assumono significati allegorici, non più e non tanto legati al sostentamento e alla nutrizione, quanto al fattore culturale, rendendo espliciti i rapporti e la differenza tra le classi sociali, identificando regioni geografiche, il susseguirsi delle stagioni e persino le fasi della vita. In particolare le scene di banchetti diventano simbolo di convivialità e socializzazione, nei quali le sontuose portate si contrappongono alla vita spirituale e forniscono un ottimo pretesto per lanciarsi in raffinati virtuosismi stilistici in un trionfo di frutta e verdura, vassoi traboccanti di pesci e cacciagione, stoviglie, alzate, trasparenze di vetri e cristalli, trine e pizzi finissimi, sfarzose sale da pranzo o spoglie cucine descritte nei minimi particolari. E intanto si cominciano a diffondere i quadri di genere e gli oggetti diventano sempre più importanti e protagonisti della scena al pari delle persone. Partendo dal Nord Europa, fanno capolino scene di mercati e cucine, cronache di feste e banchetti, interni di botteghe e anche in Italia si comincia a sentire questo cambiamento. Particolarmente interessanti sono le opere di Giuseppe Arcimboldo. La sua popolarità si deve soprattutto ai particolari dipinti rappresentanti teste umane, quasi ridicole, ritratti e busti allegorici basati sull’illusione della figura, ottenuta mettendo insieme, inseriti come le tessere di un puzzle ogni tipo di ortaggio, frutta, pesce o fiore cui dà delle composizioni ambigue e di doppia lettura. Fra le più note ci sono le cosiddette “teste reversibili”: quadri che rappresentano nature morte, ma se girati di 180° diventano particolarissimi visi umani. È affascinante scoprire come un ortaggio o un frutto si trasformi, se visto capovolto, in una parte anatomica ben precisa. Questa sua originalità ebbe origine sia dall’esempio delle grottesche teste disegnate da Leonardo, dove l’esasperazione degli studi di fisiognomica portarono a un risultato finale di una vera e propria caricatura, e sia dal momento storico nel quale l’Arcimboldo visse: infatti, la sua cultura figurativa derivava dall’essere un manierista, cioè un seguace dell’originalità, della bellezza dell’artificioso, dell’irregolarità. Con il XVII secolo la Natura Morta (il termine francese “nature morte” indicava la raffigurazione di qualcosa di silenzioso e immobile) è pronta ad affermarsi nella pittura al pari degli altri generi; in questi anni gli alimenti raffigurati non saranno concepiti come comparse ma diventeranno i veri protagonisti dell’arte. Frutta e verdura vengono rappresentati nei loro minimi particolari, nella loro naturalezza, nella loro imperfezione, stando ad indicare la bellezza corrosa dal tempo, la precarietà della vita terrena e il ciclo della natura. Principali fautori sono i pittori fiamminghi olandesi e in Italia è Caravaggio che sfida  la pittura del suo tempo dipingendo la celebre Canestra di frutta, prima opera conosciuta nella quale il cibo non è accessorio, ma protagonista assoluto della tela. Per Caravaggio non v’è differenza tra dipingere un quadro di fiori e un quadro di figure, la natura morta è legata, in lui, al pensiero della morte: è la presenza delle cose nell’assenza o scomparsa dell’uomo. Dopo Caravaggio molti artisti, soprattutto fiamminghi, ma anche italiani, produssero nature morte, per accontentare una committenza non soltanto aristocratica, ma composta anche dalla ricca borghesia in ascesa. Sempre più spesso si celebra nelle tele il vero e proprio trionfo del cibo, la ricchezza delle dispense, la ricercatezza degli arredi. Tra gli italiani vale la pena ricordare due donne, la milanese Fede Galizia, e la bolognese Giovanna Garzoni, esponenti di una corrente naturalistica che riproduce il cibo, soprattutto frutta, in tutta la sua varietà cromatica, con minuzia di particolari e attenzione ai giochi di luce. Raffinata pittrice di nature morte, ritratti, soggetti religiosi, negli stessi anni di Caravaggio, Fede Galizia fu una pioniera del genere natura morta. La prima prova nota è un’Alzata con prugne, pere e una rosa, di ubicazione sconosciuta (già ad Amsterdam) su cui si leggeva la firma e la data “1602”. Delle 63 opere del suo catalogo, ben 44 sono nature morte: pere, pesche, ciliegie, noci, piene di poesia malinconica. La Garzoni, invece, pittrice e miniaturista assai apprezzata nel Seicento, miniava i suoi ritratti, le sue nature morte (melograni e cavallette, nocciole e gelsomini, piatti di ceramica con meloni e topolini, pesche e uccellini, vasi cinesi con fichi, fave e i meravigliosi tulipani che l’Italia aveva scoperto da poco, spendendo cifre folli per procurarsi i bulbi in Olanda) con pennelli finissimi, usando tempera su carta pergamena. L’arte di Giovanna Garzoni è tutta basata sulle infinite variazioni di albicocche, ciliegie, fiori e insetti dipinti con una tecnica straordinaria attraverso l’accostamento serrato di minuscoli punti o di sottilissimi tratteggi che tiene conto della lezione fiamminga e degli artisti lombardi come Fede Galizia e Panfilo Nuvolone. Facendo un salto di qualche secolo arriviamo a Van Gogh, il quale si propone di rappresentare i più umili, nel tentativo, attraverso l’arte, di ridare dignità a tutti gli esseri viventi indipendentemente dalla loro classe sociale. Nel celebre quadro “I Mangiatori di patate”, dipinto nel 1855, la patata, ortaggio alquanto comune e base dell’alimentazione contadina, rappresenta, ancora una volta, la ricompensa per il duro lavoro svolto. Il cibo nell’arte si erge, dunque, a paladino per restituire la dignità alle classi sociali meno colte come i contadini o i ceti meno abbienti; dimostrando come davanti al cibo sia possibile parificare tutto e avere un unico momento di convivialità sociale. La rappresentazione del cibo dei poveri (o la contrapposizione del cibo consumato da poveri e ricchi) era già stata però oggetto di quadri nel Cinquecento. Pensiamo a Il mangiatore di fagioli di Annibale Carracci, non a caso considerato un capolavoro per l’abilità dell’artista di rendere un rozzo e umile paesano per quello che è, rozzo e umile senza intenti grotteschi. La minuziosa rappresentazione di un pasto popolare, l’agognata ricompensa per il duro lavoro svolto dai più miseri, anticipa il tema della natura morta e non fa che perfezionare l’intenzione del pittore. Infine, visto che siamo reduci da una lettura condivisa che ha per protagonista l’amore della Fornarina per Raffaello, e poiché la Fornarina era figlia di un fornaio, non possiamo fare a meno di parlare di opere che hanno come soggetto il pane o ciò che gli gira intorno. Uno dei soggetti prediletti dai pittori francesi, il pane diventa un simbolo: di fronte al pane ci si unisce tutti, spariscono i divari sociali e non esistono più categorie. L’affresco pompeiano che riproduce la bottega del fornaio è vivido e attuale, non vi sono grandi differenze con i banconi e gli scaffali delle moderne panetterie. Nell’alto Medioevo abbondano scene di agricoltura e trasformazione delle materie prime: il grano si raccoglie e si trasforma in farina e poi in pane. Il cibo era considerato il frutto del duro lavoro dell’uomo e dono di Dio, necessità di nutrimento e non fonte di piacere. Solo nel tardo Medioevo appaiono scene di banchetti, feste, osterie, tavole imbandite, il pane comincia ad essere rappresentato come simbolo dell’eucarestia e come cibo per tutte le classi sociali. Rappresentare scene di banchetti era simbolo di grandiosità, di ricchezza da parte del mecenate protagonista del dipinto; attraverso la pittura si ostentava il proprio benessere anche in base alla varietà dei cibi e delle ricette presenti sulla tavola. Nei quadri venivano rappresentate scene di convivialità, dove erano rappresentati uomini e donne nell’atto della preparazione dei pasti e della tavola che avrebbe poi ospitato il banchetto. Anche le stesse rappresentazioni di scene evangeliche avevano dei chiari richiami al cibo e alla convivialità: la cura dei particolari, dei significati simbolici e di quelli allegorici sono volti all’ostentazione del cibo, alla sua regalità e allo sfarzo. Le tavole imbandite mostrano non solo il successo economico ma anche il momento d’aggregazione: il cibo come elemento legante, di familiarità, di unione e coesione, di scambio e di condivisione. La più famosa “Ultima Cena” della storia dell’arte, quella di Leonardo da Vinci, nella chiesa di S. Maria delle Grazie a Milano. Leonardo dispone tutti i soggetti dell’affresco di fronte allo spettatore, evidenziandone gesti ed espressioni del viso, tutte diverse. Straordinaria l’attenzione ai dettagli della tavola: i piatti, i bicchieri riempiti per metà, i numerosi pani appoggiati lungo tutta la tavola, le pieghe della tovaglia, che presenta un fine ricamo azzurro. Nel Rinascimento e nel Barocco il pane diviene spesso il protagonista delle tele, studiato fin nei minimi particolari nelle nature morte. Si torna a rappresentare il cibo come modello estetico, energia cromatica, varietà ed equilibrio di forme. Ne è un esempio Natura morta con pani, prosciutto, pasticcio e ghiacciaia del pittore napoletano Giuseppe Recco, specializzato nelle nature morte. Mentre il pittore ottocentesco Anders Zorn, nel suo “Cottura del pane” (1889, collezione privata), rende il pane e la sua preparazione i veri protagonisti della tela. Una scena che sa di buono, di famiglia, di antico e semplice. Le donne di questa famiglia sono impegnate tutte a fare qualcosa, a prescindere dall’età. Con il passare del tempo si passa dalla rappresentazione storica alla visione del cibo come vera e propria forma d’arte, una corrente che rivede la rappresentazione classica della natura morta non più come statica e ferma nei suoi colori, ma in chiave moderna, alterandone la visione ma non la percezione della convivialità. Del resto, anche oggi, non fotografiamo forse i piatti prima di mangiarli, cercando di far emergere quanto più possibile il dettaglio, la lucentezza di una glassa o la vivacità e la brillantezza dei colori di un pescato, la sontuosità di un banchetto nuziale o la semplicità di un pane e pomodoro? E dunque, come direbbe qualcuno ben più noto: “Tutto cambia, niente cambia”. Ma ora, dite la verità, non vi è venuta un po’ di fame? Fonti http://pozzosanpatrizio.blogspot.com/p/la-cucina-della-tradinione.html https://ilgiornaleoff.ilgiornale.it/2018/01/25/fede-galizia-la-pittrice-che-inauguro-la-natura-morta/ http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/giovanna-garzoni/ https://www.calendariodelciboitaliano.it/2017/05/28/mangiare-gli-occhi-cibo-nella-storia-dell-arte/ https://www.ghiott.it/5-straordinari-quadri-di-natura-morta-con-biscotti/ https://degustibusitinera.it/51-l-angolo-delle-muse/157-la-fornarina-di-raffaello-e-il-pane-nell-arte.html
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