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Il nome della Rosa – il pensiero di Chiara Guidarini

Il pensiero di Chiara Guidarini È sempre difficile esprimere le proprie idee su un romanzo complesso: un romanzo che da una parte spinge alla lettura e dall’altra lascia attoniti per lo svolgimento. Parliamo di un libro, “del” libro per eccellenza. Il libro che potrebbe avere la capacità di raccontare la Bibbia, perché i riferimenti sono tanti e complessi, capaci talvolta di sfuggire all’occhio o nascondersi dietro ad antiche locuzioni latine: Il nome della rosa. Naturalmente, il titolo. Il nome della rosa, un titolo semplice, formato da un soggetto e un complemento di specificazione. Secondo un’interpretazione ricorrente, si tratta del nome della fanciulla, la rosa, appunto, soluzione che potrebbe essere intuibile dalle parole stesse di Adso: “Eppure, dellunico amore terreno della mia vita non avevo saputo, né seppi mai il nome”. Ma è interessante valutare il legame del “nome” al divino. L’azione narrativa è quasi interamente svolta in un’abbazia benedettina del nord Italia, quindi i riferimenti sono quasi tutti biblici e, secondo la dottrina di iniziazione cristiana, la prima cosa che viene insegnata al fanciullo è il fatto che “Dio chiama per nome”. Viene infatti specificato nella Bibbia: “Prima che tu nascessi io ti ho conosciuto, il tuo nome io lo porto scritto nel mio cuore” (Ger. 1,5) “Non temere, io sono con te, io ti chiamo per nome” (cit. catechismo per l’iniziazione cristiana – editrice elle di ci). Molteplici sono i riferimenti al nome anche nel libro di Isaia, che custodisce la dichiarazione d’amore che Dio fa ai suoi figli: “io ti chiamo per nome, tu mi appartieni” (43,1-3). Stessa cosa in altre Scritture, proprio perché si vuole a mio parere cementare il rapporto che Dio ha con suo figlio. Non a caso, durante il rito del Battesimo, c’è una sorta di cerimonia di imposizione del nome: il Sacerdote chiede ai genitori “che nome volete dare a vostro figlio?” e il nome viene poi trascritto sui registri e quello è, e rimane, persino nello spiacevole caso in cui differisse da quello comunale. Quindi “tu hai un nome, tu sei questa persona”. “Il nome rappresenta l’identità del bambino, la sua storia presente e futura. Durante il rito il nome viene ripetuto più volte: un’amicizia personale si stringe tra il Creatore e la creatura.” (cit. il battesimo dei nostri bambini, ed. elle di ci) Qui siamo nella situazione opposta, perché alla ragazza il nome manca. Quasi come se non esistesse, non fosse figlia di Dio, Dio non la riconoscesse. Ricordiamo che la donna, in quell’epoca, era vista come qualcosa di maligno, una tentatrice, una strega. Faceva paura perché sanguinava e non moriva, perché in lei si compiva il mistero della creazione. E sembra quasi che i frammenti del puzzle combacino laddove la donna, incantatrice, seduttrice, non a caso senza nome, si avvicini ad Adso, puro, novizio, immacolato, coinvolgendolo in uno strano legame tra sacro e profano. Se nella narrazione poi la ragazza non tornasse, in maniera sfuggevole, dopo essere stata arrestata, verrebbe quasi da pensare che in realtà si tratti di una visione onirica del giovane aspirante frate, indebolito dai fumi respirati nella biblioteca, che recandosi in cucina si trova a cospetto di una tentazione prodotta più che altro dalla sua mente. Ma la ragazza c’è ed è reale, perché il loro secondo incontro viene determinato da una sfuggevole vista. La rosa, invece, è il simbolo dell’amore che trionfa, non a caso si tende a farne il fiore per eccellenza degli innamorati.  Ma le rose, per quanto belle, hanno le spine, e le spine si conficcano tutte nel cuore di Adso. Ecco dunque che  il titolo potrebbe avere la doppia valenza del nome (in ambito profano, perché alla ragazza manca) della rosa (in ambito divino perché esaltazione del più puro dei sentimenti). La storia Rispolverato ultimamente grazie all’omonima serie televisiva terminata il 25 marzo, narra la storia di Frate Guglielmo, ex inquisitore, uomo erudito, saggio e intelligente, visto dagli occhi del giovane Adso che, al contrario, è un novizio alle prese con tutto quello che la sua giovane età comporta. Dietro a una trama apparentemente semplice si cela una storia invero molto complessa: non solo la macabra esecuzione di frati, ma anche il misterioso legame con lo spettrale labirinto della biblioteca, vista come luogo in cui l’anima s’innalza e si perde. Un gioco di numeri sacri che si incastrano con le citazioni della Bibbia, prima tra tutti l’Apocalisse di Giovanni, che più volte ritorna in maniera più o meno fervente nella narrazione. Sette, il numero per eccellenza, scelto da Dio per stipulare l’alleanza che ruota attorno all’uomo, è il numero che ricompare secondo me più volte, e non credo sia un caso: la costruzione stessa della biblioteca ruota attorno a quel numero e le trombe che suonano nell’Apocalisse sono sette. I religiosi assassinati secondo l’ordine in cui suonano le trombe sono, invece, cinque: Adelmo da Otranto, Venanzio da Salvemec, Berengario da Arundel, Severino da Sant’Emmerano e l’Abate. Ma non dobbiamo dimenticare che muoiono anche Remigio, avvolto dalle fiamme della biblioteca e Jeorge, il frate cieco. Sette, come i peccati capitali, come i sacramenti, i morti in nome della conoscenza. Il libro dell’Apocalisse ha, tuttavia, la sola funzione di depistare Guglielmo dalle sue indagini: non è corretta l’interpretazione sebbene plausibile, e Guglielmo lo comprende solo alla fine, quando si specchia negli occhi del suo antagonista. Lo stile narrativo Descrizioni superlative e impressionanti si alternano a parti un po’ più lente, dove a parer mio, è facile perdersi. Dalla disputa, a tutti questi processi ai frati, a un riuscitissimo deux ex machina dove effettivamente Bernardo Gui arriva nel posto giusto al momento giusto e nel modo giusto che porta rapidamente al collasso di tutti gli eventi. Ma come non soffermarsi sulla descrizione tecnica dell’abbazia, dove queste alte mura si levano al cielo fin quasi a toccarlo, per poi non notare lo sguardo vigile e attento di Guglielmo che pare quasi commuoversi di tanta superba magnificenza. I monumenti sono la prova della tangibilità di Dio in terra, espressione dell’amore di un popolo, e l’abbazia pare quasi raggiungere il  divino incontrandolo laddove l’occhio si perde. I personaggi sono raccontati da Adso, che funge il doppio ruolo di narratore e protagonista; anche se il vero protagonista è Guglielmo, magister straordinario, un esempio da imitare, un uomo al di sopra dei suoi tempi, apparentemente perfetto. Ma come poter assolvere chi ha commesso un peccato se non si conosce il peccato di cui si sta parlando? Guglielmo ha toccato le spine, il ché lo rende straordinariamente umano, aprendo tutta una serie di parentesi su quale potesse essere il passato di un uomo così dotto. Superba anche la descrizione e l’impostazione di Salvatore. Un povero tra i poveri, debole di mente, con un passato difficile e un futuro ancor più difficile, salvato da Remigio, amico, padre, fratello spirituale. Parla una miscellanea di lingue, Salvatore, che però non gli impediscono di farsi capire, e alla fine il suo stato, la sua storia, fa quasi provare pietà per lui e per i suoi gesti dettati dall’istinto. La ragazza risulta invece sfuggevole. Come accennato, può sembrare una visione onirica, ma non c’è una vera e propria descrizione di come sia. C’è invece un’ampia descrizione dei sentimenti di Adso che, come novizio, rapporta tutta la situazione a parallelismi con le Scritture partendo dal testo d’amore per eccellenza: il Cantico dei Cantici. Ovviamente, lo stile narrativo, la cadenza, il ritmo delle frasi, non possono essere semplici per il lettore moderno. L’idea è quella di leggere una pergamena antica, non scritta in maniera paleografica ma con lemmi semplici, tuttavia con cadenza antica e lineare, alternata a volte a locuzioni latine che, aimé, fanno mancare gran parte della narrazione a chi il latino non lo conosce. E la questione del riso La storia ci insegna che Gesù, durante l’ultima cena, spezzò il pane e bevve il vino, che nella Messa rappresentano rispettivamente corpo e sangue. Ora, il vino, “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, non è stato scelto a caso e non perché è di colore rosso, ma perché il vino è l’emblema della gioia, ma anche della perdizione, perché l’eccesso porta all’esagerazione. “Quando si beve vino si è insieme, si condivide un piaere, è affermare che la gioia è più forte della fatica; e quando si beve insieme tra amici o amanti è affermare che l’amore è più forte della morte.” (cit. Corso vicariale di formazione catechisti 2011) Il vino, se assunto in giuste dosi, scioglie la lingua, sublima il canto, da allegria… e chi è allegro cosa fa? Ride. Il canto stesso è allegria, ma è anche preghiera. Sant’Agostino insegna che “cantare è pregare due volte” e quindi quando canti cosa fai? Ridi. Ridi, sorridi, pregando. Questa considerazione ci riporta immediatamente a uno dei sette sacramenti: la comunione. Conclusioni Non è il genere di lettura da prendere alla leggera. Non è il romanzetto da leggere prima di addormentarsi e che lascia andare a dormire col cuore sereno. È un romanzo dove bisogna avere la giusta predisposizione d’animo, perché sennò si rischia davvero di abbandonarlo prima della centesima pagina. Devi quindi sapere che non sarà un romanzo semplice e quando l’avrai finito ne uscirai cambiato, perché avrai delle nozioni che prima non avevi, e potrai dire la tua, che sarà sicuramente differente da quella di un altro e da quella di Eco stesso. Per quanto mi riguarda, vale la regola che lo scrittore è solo il tramite che unisce un mondo alla pergamena e, tante volte, nemmeno lui sa interpretare quello che il suo personaggio gli sta raccontando. Lascerei quindi il libero arbitrio al lettore nel decidere di accaparrarsi il finale che preferisce: non viene mostrata la ragazza che brucia, che riesca a fuggire, per esempio? Che Adso la ritrovi? Che prenda i voti solo in seguito? Non lo sappiamo. Ma sappiamo, in maniera più che mai tangibile, che mura non vinte dal tempo possono nascondere immani tesori, e frugando tra quelle rovine, si potrà trovare ciò che resta di segreti vergati da antiche mani dimenticate tra le pieghe dei secoli.  
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