Articolo a cura di Matilde Titone
Era il 26 giugno 1819 quando W. K. Clarkson Jr brevettò a New York il suo velocipede, il primo vero antenato della moderna bicicletta: due anni prima in Europa Karl Freiherr von Drais aveva ricevuto dal duca di Baden (Germania) un privilegio granducale decennale, all’epoca l’equivalente di un moderno brevetto, per la sua “draisina”, un mezzo simile alla moderna bici che però non aveva pedali né freni.
Quando ero piccola pensavo che la bicicletta fosse nata così come era nel mio tempo. Tutti più o meno abbiamo imparato ad andare in bicicletta. Tutti più o meno insegniamo ai nostri figli o nipoti ad andare in biciclette, è forse una delle prime cose che ci viene insegnata dopo il camminare da soli, si impara ad andare in bici da soli. Chi ricorda la sua prima bicicletta? La mia era una Graziella, chi si ricorda la Graziella?

Una piccola curiosità: La mitica Graziella fu una bicicletta pieghevole disegnata da Rinaldo Donzelli e prodotta a partire dal 1964 dalla fabbrica Carnielli di Vittorio Veneto. E sapete perché si chiama Graziella? È stato dato questo nome in onore di Graziella Del Bello che ai tempi del lancio di questa bicicletta era campionessa italiana di ciclismo!
Ma iniziamo dal principio:
Il 26 giugno del 1819, esattamente 202 anni fa, W. K. Clarkson registrò a New York il primo brevetto per un “Velocipede” negli Stati Uniti. Per convenzione, si considera questa la data di nascita della bicicletta moderna, visto che le origini antiche del mezzo si perdono nella storia più remota, forse addirittura nel terzo secolo a.C. in Cina.

Non è la storia di un’invenzione qualunque, è una storia complessa e anche molto interessante. Si tratta di un’invenzione rivoluzionaria per molti aspetti. Dopo il cavallo e prima della macchina a motore si pone questo veicolo a due ruote che cambierà non solo il modo di spostarsi ma avrà anche un impatto sociale, economico e sociologico sulla società.
Sembra impossibile ma secondo alcune fonti l’invenzione della bicicletta è stata influenzata dall’eruzione nel 1815 del Tambora, un vulcano indonesiano. Un evento talmente devastante che causò quello che in Europa venne definito un anno senza estate. Le cronache dell’epoca riportano un oscuramento dei cieli e conseguenze drammatiche quali la carestia. In realtà già nel 1812 c’era stata in Europa una crisi di raccolti di avena e le condizioni climatiche avverse avevano distrutto i terreni e i cavalli venivano lasciati morire di fame. Era il momento giusto per progettare un mezzo di locomozione in grado di sostituire il quadrupede.
Il conte Karl Drais (chiedo scusa per l’imprecisione ma a volte e definito conte a volte barone E per tagliare la testa al toro lo chiamerò Conte non rischiando il declassamento) studia architettura, fisica e soprattutto agricoltura a Heidelberg. Trasferitosi a Mannheim, si dedica completamente alla sue invenzioni. Al Congresso di Vienna, Drais presenta il suo prototipo di carrozza senza cavalli. Si tratta della prima bicicletta della storia, che i francesi chiameranno “draisienn” (draisina) in onore del barone. Quest’ultimo invece la chiama semplicemente “Laufmaschine” (macchina per correre).

Il mezzo era costituito da un telaio di legno con una trave robusta che sosteneva la sella. Al posto del manubrio aveva una specie di ancora rovesciata collegata alla ruota anteriore, sterzante, con otto raggi. L’avanzamento della draisina avveniva tramite la pressione per terra con i piedi mentre il freno era rappresentato da un filetto che aziona una paletta frenante sulla ruota posteriore. Il conte Drais, tramite Louis-Joseph Dineur, brevettò il suo mezzo di locomozione in Francia nel 1818 dove ebbe un incredibile successo: ne diede una dimostrazione pubblica a le Jardin de Luxembourg. La draisina che aveva permesso al barone Karl Drais di percorrere 14,4 chilometri, in solo un’ora nel luglio del 1817, mostrò ben presto i suoi limiti. Fu in effetti una famiglia francese, quella dei Michaux, a modificare il mezzo aggiungendo i pedali direttamente sul mozzo centrale della ruota anteriore. Nacque così la michaudina nel 1861, la prima ad adottare le pedivelle con pedali.
In un modello del 1870 pensarono di aggiungere anche dei primi rudimentali freni che altro non erano che la riproduzione in miniatura del sistema di frenaggio delle carrozze (una corda che si doveva tendere a mano sotto il sedile azionava un ferro che andava a creare attrito sulla ruota posteriore di legno). All’epoca il modello di michaudina costava tra i 500 e i 600 franchi d’oro. Uno sproposito. E in effetti dalle cronache sappiamo che i Michaux passarono alla storia ma, come accadde anche per Gutenberg, fallirono. La bici era chiamata anche «spaccaossa», per l’assenza di ammortizzatori e di pneumatici. Gli anni seguenti furono quelli del biciclo, il penny-farthing, chiamato così perché le due ruote avevano dei raggi molto diversi (il farthing era una piccolissima moneta inglese erosa poi dalla svalutazione monetaria e dunque scomparsa). A questo punto compaiono gli inglesi nella nascente industria della bicicletta, poiché Francesi e tedeschi erano stati impegnati dalla guerra del 1870, non prima però di aver introdotto un’altra fondamentale innovazione : la trasmissione a catena che viene fatta risalire all’orologiaio parigino André Guilmet.

Le innovazioni dell’industria della bicicletta furono moltissime: a Daniel Rudge si fa risalire il sistema delle palline per ridurre l’attrito (il cosiddetto sistema a cuscinetto); a James Starley, il padre del biciclo, le ruote con raggi tangenti per renderle più sicure. Il biciclo, che ebbe grande successo commerciale, era però destinato a scomparire velocemente: con una ruota molto piccola e l’altra molto grande era un mezzo pericoloso, sia per chi lo cavalcava, sia per i poveri pedoni che vi finivano in mezzo. Ma la ruota grande era necessaria per trasmettere il moto in maniera più efficiente (maggiore è il raggio, più saranno i metri che si riescono a fare con un singolo giro di pedali, un’equazione che contrapponeva efficacia e sicurezza). Sempre sui bicicli, inoltre, aveva fatto la sua comparsa la gomma vulcanizzata. Fino a quando un veterinario scozzese, John Boyd Dunlop, dopo averla provata sul triciclo del figlio, brevettò nel 1888 la gomma pneumatica per biciclette, la cui superiorità venne dimostrata con una serie di record. Stava per iniziare, nel 1890, l’era delle gare che avrebbero portato ai Tour.

Una piccola curiosità: in realtà il brevetto fu revocato a Dunlop quando si scoprì che un altro scozzese, Robert William Thomson, molti decenni prima aveva presentato i documenti per una soluzione molto simile, anche se non per biciclette, curiosamente Thomson fu anche l’inventore della penna stilografica, e Dunlop della famosissima racchetta da tennis.