Articolo a cura di Raffaelina Di Palma
Dopo la scoperta dell’America (1492) la schiavitù crebbe in maniera rapida. Nelle piantagioni di tabacco, cotone e canna da zucchero degli Stati Uniti e di altri paesi dell’America centrale e meridionale c’era un grande bisogno di mano d’opera a basso costo.
Iniziarono così le razzie delle coste africane da parte degli spagnoli, portoghesi, olandesi e inglesi, di uomini, donne e bambini da rivendere nel nuovo mondo. Il viaggio attraverso l’Atlantico durava mesi e avveniva in condizioni disumane.

La proclamazione dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America, fu preceduta dal Proclama di Emancipazione, firmato dal presidente Abramo Lincoln il 31 gennaio 1863, che liberò gli schiavi negli Stati secessionisti. Gli effetti del processo di integrazione degli ex schiavi e lo smantellamento della cultura razzista, che ne aveva permesso lo sfruttamento, fu lungo, complicato e difficile e i suoi effetti si sentono ancora oggi.
Viene abolita la schiavitù negli Usa
Con il XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, in data 31 gennaio 1865, si sanciva l’abolizione della schiavitù e il rispetto del diritto alla libertà garantito a tutti i cittadini del Paese: un cambiamento epocale, un cambiamento che diede il via all’abolizione della schiavitù negli USA.
Lo stesso concetto di schiavitù rappresentava una contraddizione per una nazione che difendeva come principio clou, il diritto alla libertà individuale per tutti gli uomini, contenuto nella Costituzione ma, nella realtà, di fatto, non si applicava agli afroamericani, che erano non solo schiavi, ma non considerati nemmeno come esseri umani. Quindi era vitale una vera emancipazione per gli schiavi, che Lincoln aveva inserito con il decreto emanato nel 1863, negli Stati ribelli della Confederazione.
La parola schiavitù è un derivato di schiavo, con la giunta del suffisso -itù come in servitù.
Essa richiama figure e storie dei secoli passati: dagli antichi greci e romani si arriva ai raccoglitori africani nelle piantagioni di cotone degli Stati Uniti di metà Ottocento.
Storicamente, la schiavitù era la condizione per cui un individuo perdeva tutti i diritti di persona libera. “Un individuo che diventava proprietà di un altro individuo” (già questa espressione fa venire i brividi), il “proprietario” di uno schiavo si appropriava di lui e aveva “diritto” di vita e di morte su di esso e sulla sua famiglia: aveva diritto a sfruttare il suo lavoro senza dargli nessuna retribuzione per esso; il costo per il mantenimento degli schiavi era limitato all’essenziale per la loro sopravvivenza.
L’acquisizione delle libertà civili, da parte degli schiavi neri, coincise formalmente con la “Dichiarazione di emancipazione”. Dopo due lunghi e tormentati anni, con la firma del tredicesimo emendamento, il processo di liberazione degli schiavi era stato, alla fine, avviato.

Il Juneteenth
La schiavitù in Texas fu ufficialmente abolita il 19 giugno 1865, quando il generale Unionista Gordon Granger proclamò la liberazione di tutti gli schiavi nello stato.
Il Texas fu l’ultimo stato della Confederazione a ufficializzare l’abolizione della schiavitù.
Il 19 giugno negli Stati Uniti si commemora il denominato Juneteenth (da giugno, june, e diciannove, nineteenth),una ricorrenza annuale che ricorda la fine della schiavitù nel Paese. In questa data, infatti, “19 giugno 1865”, i soldati dell’Unione arrivarono a Galveston, in Texas, e annunciarono agli schiavi che la guerra civile era finita e la schiavitù abolita, quindi, loro erano persone libere. (Di questo episodio ne fa una interessantissima descrizione nel suo romanzo “Alabama,” lo storico Alessandro Barbero).
Oltre a festeggiare la libertà e l’emancipazione degli schiavi afroamericani, quindi, celebrare il Juneteenth significa anche ricordare il ritardo con cui la nuova legge si affermò in alcuni Stati del Sud, dove i proprietari terrieri bianchi cercarono di mantenere i loro privilegi il più a lungo possibile.
La guerra civile americana, detta anche guerra di secessione, iniziò nel 1861, quando sette Stati del Sud decisero di separarsi dal resto dell’Unione perché contrari alla proposta degli Stati del Nord di abolire la schiavitù.
Nelle piantagioni degli Stati del Sud, infatti, l’economia si sosteneva completamente sul lavoro degli schiavi.
Primi accenni abolizionisti
Già la Repubblica di Venezia nel 960, con la promissione ducale (il giuramento ducale di ciascun Doge), del Doge di Venezia, Pietro Candiano, formalmente vietava il commercio di schiavi, mentre di fatto esso continuò fino al XVII secolo. La promissione infatti proibiva il commercio di schiavi cristiani, offrendo ampia facoltà di manovra al commercio.

Abolizione negli imperi coloniali
Nel 1750 Sebastião José de Carvalho e Melo abolì lo schiavismo nei confronti dei nativi delle colonie portoghesi. In epoca moderna una svolta di portata mondiale nel processo di abolizione avvenne nei paesi occidentali, dove con gli ideali umanitari diffusi costantemente dall’Illuminismo si affermò l’idea di una soppressione universale della tratta e della schiavitù, senza influenze religiose o nazionali. Il primo Paese che andò in questa direzione fu il Regno di Danimarca, che abolì la tratta con un atto emanato nel 1792 e divenuto concreto nel 1803. Nel Regno Unito, dopo 7 proposte di legge presentate da William Wilberforce, con l’appoggio di Thomas Clarkson, a partire dal 1792, il 25 marzo 1807 il Parlamento approvò lo Slave Trade Act, reso e divenuto reale dal 1° gennaio 1808, avviando così un processo che avrebbe portato all’abolizione da parte delle altre potenze coloniali. A partire dalla stessa data il commercio degli schiavi con l’estero veniva proibito anche dagli Stati Uniti.
La vita nelle piantagioni
Le condizioni di vita degli schiavi nelle piantagioni erano durissime, il lavoro iniziava all’alba e terminava al tramonto, con lavori pesanti come arare e raccogliere cotone.
La loro residenza era costituita da semplici capanne e la loro dieta era limitata e scarsa.
Lo schiavismo interessò soprattutto le zone in cui i terreni erano più fertili, ideali per vaste piantagioni di prodotti molto richiesti, come tabacco, cotone, zucchero e caffè. La loro vita era contrassegnata da punizioni fisiche e psicologiche per ogni piccolo errore o disubbidienza.

Le donne erano i soggetti più vulnerabili: esposte alla violenza sessuale, a gravidanze indesiderate, alla perdita dei figli che venivano venduti in tenera età.
Alla schiavitù si mescolavano principi di cultura delle origini e dei luoghi di arrivo come il Cristianesimo. Queste culture “ibride” diedero vita a sentimenti di solidarietà, che facevano circolare notizie e speranze di libertà.
La famiglia giocava un ruolo decisivo nella vita delle persone schiavizzate. Matrimoni e funerali con riti, che richiamavano situazioni culturali delle loro origini africane, rafforzavano i legami simbolici, a fronte di un contesto in cui i rapporti tra marito e moglie e tra genitori e figli potevano essere brutalmente distrutti in qualsiasi momento.
La Schiavitù. Ma è davvero finita? Se si pensa che il Mississipi la ratificò solo nel 1995, a 130 anni dalla sua adozione. Per di più, nel 2013, si è scoperto che, a causa di una mancata comunicazione, la decisione non era mai stata ufficializzata alla National Archives and Records Administration, l’agenzia indipendente che si occupa di registrare e rendere consultabili i documenti governativi e amministrativi negli Stati Uniti.
È interessante, sempre in prospettiva giuridica, spostare l’attenzione anche su altri momenti storici. Si pensi al Diritto Penale Internazionale e alla Convenzione di Ginevra concernente la schiavitù, del commercio di schiavi e sulle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù del 1956, ratificata dall’Italia con legge 20 dicembre 1957, n.1304.

La schiavitù è stata abolita ufficialmente in molti paesi ed è considerata un crimine internazionale. Tuttavia, la schiavitù moderna, sotto forme diverse, persiste ancora in molte parti del mondo, a danno soprattutto di bambini che non hanno un supporto famigliare, sono i soggetti più deboli: la schiavitù viene ancora combattuta da organizzazioni internazionali e governi.
«E queste cose vengono commesse e sono giustificate da uomini che professano di amare il loro prossimo come se stessi, che credono in Dio e pregano che la sua volontà sia fatta sulla Terra! Fa bollire il sangue e tremare il cuore che noi inglesi e i nostri discendenti americani con il loro millantato grido di libertà, siamo stati e continuiamo ad essere tanto colpevoli».
(Charles Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, 1839)
Libri consigliati

Radici
Alex Haley
Nella seconda metà del Settecento il giovane Kunta Kinte viene strappato dal suo villaggio africano e portato in America come schiavo. La sua vita cambierà, come quella dei suoi discendenti: Bell, Kizzy, Chicken George e tutti gli altri, fino a giungere ad Alex Haley, l’autore di queste pagine.

12 anni schiavo
Solomon Northup
12 anni schiavo è l’autobiografia di un libero cittadino dello Stato di New York: Solomon Northup, un afroamericano che conduceva insieme alla sua famiglia una vita libera nell’America già percorsa dalle crepe che sarebbero presto esplose con la Guerra di Secessione, e che avrebbero fatto crollare le contraddizioni di un Nord e un Sud separati da un profondo abisso. Al confine di queste due dimensioni antitetiche Solomon si troverà a combattere la sua battaglia personale e universale insieme: rapito nella città di Washington, derubato della sua identità e costretto a lavorare per dodici anni nelle piantagioni della Louisiana, Solomon incarna la profonda disperazione e la tormentosa fiducia di un uomo a cui un sistema inumano cerca di togliere dignità e forza. Tuttavia esso fallirà nell’intento e Solomon sarà destinato a portarci la testimonianza di un dolore così abissale che a tratti sembra cedere sotto la pressione di un peso troppo grande, solo in parte risanato dal potere salvifico della liberazione; e tuttavia capace di illuminare ancora oggi, con raggi di accecante luminosità, il passato più oscuro del mondo contemporaneo.