Viaggio nella storia

Storia del manicomio e della malattia mentale

Articolo a cura di Matilde Titone

Quando Roberto mi ha proposto questo articolo sono rimasta molto colpita…parlare di Manicomio, malattia mentale, la nascita e l’evoluzione di questa “clinica psichiatrica per matti” è molto delicato, ma anche complesso. Non si può certo fare un trattato clinico, né una semplice cronologia. Così sono andata alla ricerca di libri che trattano l’argomento e ho scoperto una bibliografia vastissima e interessantissima, ma non avevo certo il tempo per leggerli tutti; ho così letto le prefazioni di alcuni, piccoli sunti, e più leggevo più mi appassionavo a questa storia. Vorrei partire dall’etimologia del nome che è un nome composto da Mania dal greco μανία “pazzia” e komē̂ion “curare”. Il vocabolario Treccani dice: sinonimo di ospedale psichiatrico, usato soprattutto quando esso era concepito, più che come luogo di cura, come luogo di ricovero dei malati di mente: ricoverare, chiudere, internare in manicomio.

Ma chi sono i malati di mente? Nei secoli tra i malati mentali furono inclusi tanti individui di cui la società non aveva voglia di prendersi cura o erano scomodi al potere costituito. Il primo a parlare di follia è Omero, che la definisce una punizione degli Dei: spesso sono infatti le divinità stesse a metterci lo zampino scatenando la follia cieca degli uomini che assume la forma di una rabbia incontrollata e sanguinaria. Ne sono esempi anche l’Aiace di Sofocle o la Medea di Euripide.

ANTICA GRECIA

Nella Grecia delle Polis si prevedeva l’esclusione dei malati di mente dalle cariche politiche e dal servizio militare, il divieto di portare armi e la nullità del testamento; per il resto i “pazzi” erano lasciati liberi e affidati alla famiglia. Platone, nelle Leggi, afferma che al pazzo deve essere proibito di aggirarsi per la città e che deve essere tenuto in casa dai parenti. La cura dei malati di mente veniva delegata alla famiglia, non esisteva il concetto di un intervento delle Istituzioni sul malato, anche se il filosofo greco arriva anche a ideare una struttura pubblica (antenata dei moderni manicomi) in cui chiudere gli alienati, un σωφρονιστήριον (“casa che rende saggi”), qualcosa di simile al manicomio gestito dalle Istituzioni. Non venne mai messo in atto e rimase pura teoria. I pazzi erano comunque individui circondanti da un alone di sacralità, poiché era la divinità a conferire loro quello status.

Occorre arrivare a Ippocrate di Kos, 460 a.C. circa – Larissa, 377 a.C., il medico greco considerato il padre della medicina scientifica, per modificare il concetto di follia, infatti Ippocrate polemizza contro l’arcaica nozione di possessione divina, attribuisce le cause delle malattie a fattori ambientali anziché a fenomeni soprannaturali, e sottolinea l’importanza dei sintomi per la formulazione di una diagnosi. basandosi sull’osservazione clinica. Ippocrate considerò le “freniti” malattie psicotiche organiche primitive del cervello (disturbo mentale acuto con febbre); le “manie” erano invece i disturbi mentali acuti senza febbre; infine la predominanza dell’umore nero, secreto dalla bile, portava ad un’indole pessimista: la “malinconia” (μελαγχολία, lett. “bile nera”). Intuì inoltre l’importanza del rapporto medico-paziente e l’utilizzo di strumenti terapeutici come il gioco, il dialogo, la lettura e la musica, abbandonando l’uso di costrizioni come le catene, le percosse e le punizioni, usate solo per i più violenti; in qualsiasi caso, egli constatava come la solitudine non facesse che aggravare le condizioni mentali del paziente.

ANTICA ROMA

Le prime concezioni della pazzia nell’antica Roma furono ancora essenzialmente animistiche: i sintomi erano cioè considerati espressione di forze esterne al soggetto, come le divinità, che influenzavano l’agire dell’uomo. Tale interpretazione separava dunque dalla persona la malattia mentale che si pensava avesse una causa soprannaturale.

Plinio il Vecchio (23 d.C.-79 d.C.) sosteneva che il vino fosse “un prodotto tanto adatto a confondere l’intelletto umano e suscitare pazzia, causa di migliaia di delitti.”  

Nell’età di Traiano (98-117 d.C.) visse a Roma il medico Celio Aureliano, seguace della scuola medica dei Metodici fondata sulla dottrina epicurea. Celio polemizzò nei confronti di quelli che per la cura delle malattie mentali adottavano mezzi coercitivi sostenendo l’efficacia terapeutica dell’idroterapia.

La medicina romana si avvalse infine dell’importante contributo di Claudio Galeno (129-201 d.C.) che operò per la cura della pazzia una commistione tra le teorie filosofiche e le analisi naturali dei medici. Accolse la terapia prescritta da Ippocrate che s’indirizzava verso rimedi fisici come bagni caldi e freddi, salassi, unguenti, purganti, trattamenti questi che furono adottati anche a Roma sino alla caduta dell’Impero. Praticò l’anatomia e la neurofisiologia, scoprendo nel sistema nervoso centrale, e in specie nel cervello, l’origine delle funzioni psichiche e, come Ippocrate, affermò che alcune malattie mentali erano l’effetto di una lesione cerebrale. La pazzia dunque non aveva nulla a che fare con i miti religiosi ma, come la dottrina umorale di Ippocrate aveva rivelato “quando il cervello diventa troppo caldo o troppo umido, troppo freddo o troppo secco, alterazioni causate dagli umori, l’uomo diventa alienato”.

Coerentemente con la loro tradizione giuridica, i Romani si preoccuparono di definire gli aspetti legali delle malattie mentali. Il Corpus Iuris Civilis stabiliva, ad esempio, che se al momento “del fatto criminale” fossero in atto disturbi mentali la colpevolezza del reo veniva attenuata. Specifiche leggi poi furono promulgate per regolamentare la capacità del malato mentale di sposarsi, di divorziare, di disporre della proprietà, di scrivere un testamento e di testimoniare. Nell’età di Giustiniano (482 d.C.565 d.C.) i malati mentali rimasti privi di ogni cura vennero internati negli Istituti per i poveri e per gli infermi.

MEDIOEVO

Nel Medioevo la follia era considerata una manifestazione del demonio e il folle da allontanare e liberare dal male. Si riteneva che fosse un vizio acquisito, un prodotto di una debolezza della vita, o una punizione divina. Si pensava che la follia potesse essere causata da invidia o da altre cause malvagie. Si riteneva anche che i folli fossero “segnati da Dio” e che potessero avere una connotazione profetica. Per “guarire” i folli si ricorreva a cure spirituali, come preghiere, segno della croce, recitazione del Rosario, uso dell’acqua benedetta, pellegrinaggio verso i santuari. Se i metodi spirituali non funzionavano si ricorreva a metodi più estremi, come i supplizi. I folli che non venivano curati vagabondavano, spesso abbandonati dalle proprie famiglie.

La follia era considerata ancora principalmente come un problema domestico, con le famiglie e le autorità parrocchiali preposte ai regimi di cura. Nell’Europa medievale pare ci fosse solo una piccola parte della popolazione dei pazzi internati in ambienti istituzionali, ad esempio nel monastero cristiano.  Alcune città ebbero delle torri dove venivano custoditi i folli (chiamati Narrenturm in lingua tedesca, “torri dei pazzi”). L’antico ospedale parigino Hôtel-Dieu ebbe a disposizione anche un numero ridotto di celle destinate ai cosiddetti lunatici, mentre la città polacca di Elbląg poteva vantare di una “casa dei pazzi” (Tollhau) attaccata all’ospedale dell’Ordine teutonico. Lo sviluppo della pratica e della legislazione sulla salute mentale inizia nel 1285 tramite un caso in cui si collegò “l’istigazione del diavolo” con l’essere “frenetico e pazzo”. In una cultura in cui i confini fra il divino, l’umano e il demoniaco erano labili, diventava difficile distinguere i sintomi di una patologia da quelli dell’estasi o della possessione mistica. Nacquero allora istituti ospitanti i cosiddetti Insani, venivano chiamati “gli asili dei lunatici” o case dei matti, nei matti erano inclusi anche i vagabondi, le prostitute, visionari di ogni tipo e tutti quelli definiti ed etichettati come “anomali”, che si sono schierati cioè al di fuori della società costituita. A Londra il Bethlem Royal Hospital (allora denominato Priory of Saint Mary of Bethlehem o più semplicemente Bedlam) venne fondato nel 1247. All’inizio del XV secolo ospitava sei uomini “insani”.

RINASCIMENTO

Con il Rinascimento iniziò la criminalizzazione della follia, si incominciò a vedere l’emergere del Iato oscuro nella psiche del soggetto. Come conseguenza si iniziò a ritenere il folle responsabile della sua diversità, con la conseguente reclusione o espulsione dalla comunità. Del 1490 è il dipinto di  Hieronymus Bosch “La Nave di Folli”, che racconta la follia come dipendenza dal cibo. La nave è un tema che nel Rinascimento ritorna frequentemente sia in letteratura sia in pittura, ed era purtroppo una realtà: questi battelli, che trasportavano un carico di insensati da una città all’altra (quando non venivano gettati direttamente a mare), esistettero veramente. Affidarli a navi di passaggio, pagando affinché fossero trasportati altrove, era un metodo primitivo ma sicuro per liberarsi della loro ingombrante presenza. (Alberto Angelini, psicologo e psicanalista Breve Storia della Follia). L’usanza era frequente soprattutto in Germania; a Norimberga, durante la prima metà del quindicesimo secolo, era stata registrata la presenza di sessantadue folli; trentuno sono stati cacciati; per i cinquant’anni seguenti si conserva la traccia di ventun partenze obbligate; e si tratta solo dei folli arrestati dalle autorità municipali. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri: a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo.

La nave dei folli

Nel Cinquecento il grande cantore della follia in letteratura è Ludovico Ariosto che narra della pazzia amorosa nell’Orlando Furioso. Ariosto è il primo ad argomentare la follia nel doppio discrimine tra violenza cieca e sana e genialità. Un altro tema di indagine in letteratura è la presunta follia di Torquato Tasso: il poeta cortigiano era pazzo oppure era un genio incompreso dal proprio tempo?

Solo a partire dal Seicento e poi nel Settecento si ebbe la prima formulazione della tesi organicista che vede nella follia la conseguenza di una patologia fisica. Verso la metà del XVIII secolo questa patologizzazione della follia portò alla realizzazione dei primi manicomi, dando così avvio alla pratica della reclusione sociale degli alienati, evento capitale nella storia della follia.

Già nel 1632 fu registrato che il “Bethlem” londinese possedeva nel suo vasto sottoscala un salotto, una cucina, due dispense, una lunga entrata sul retro e 21 stanze in cui poterono ritrovarsi persone povere raccattate per la strada, “distratte” o in stato confusionale, mentre sopra le scale altre otto camere per gli eventuali assistenti. I detenuti considerati maggiormente pericolosi o “turbativi” potevano essere incatenati, ma il Bethlem rimaneva un edificio altrimenti aperto. I suoi pazienti potevano vagare attorno ai suoi confini ed eventualmente anche in tutto il quartiere circostante. Nel 1676 la struttura si espanse in locali di nuova costruzione a Moorfields, ottenendo così una capacità di altri 100 detenuti. Una seconda istituzione pubblica di beneficenza fu aperta nel 1713, il “Bethel” di Norwich; si trattò di una piccola struttura che generalmente avrebbe potuto ospitare fra 20 e 30 detenuti.

CONCETTO DI FOLLIA

Il concetto di follia negli anni muta ancora, non si è folli perché si è malati, ma perché si è immorali, perché non si rispettano le norme della comunità. Il folle diventa e resterà a lungo, fino al XX secolo, l’emblema di un’oppressione sociale. La follia è una delle tante forme della “sragione”; e il folle fa parte di un’umanità colpevole e socialmente dannosa. Perciò deve essere internato, punito e corretto. La conclusione tratta dalla maggioranza dei “normali” che l’istituzionalizzazione fosse la soluzione più corretta per trattare le persone considerate squilibrate, “entusiaste”, maniache, dementi, furiose, affette da “cretinismo” e da idiozia, asociali, poveri e orfani e vedove senza alcun mezzo di sostentamento, invertiti sessuali (così erano chiamati gli omosessuali un tempo) e affetti da infezioni di origini sessuali, mongoloidi ecc. fece parte di un processo sociale del XIX secolo il quale cercò di rinvenire “soluzioni” al di fuori delle famiglie e delle comunità locali.

LA NASCITA DEL MANICOMIO

Il primo manicomio vero e proprio fu fondato dal medico francese P. Pinel (1745-1826) nel 1793, liberando i folli dalle prigioni in base al principio che il malato di mente non può essere equiparato al delinquente. Tuttavia per lungo tempo il manicomio rimase un luogo di internamento coatto anziché un centro di terapia e di riabilitazione attiva.

In Gran Bretagna all’inizio dell’Ottocento vi erano forse qualche migliaio di lunatici ospitati una varietà d’istituzioni separate, ma all’inizio del XX secolo coloro che erano definiti tali ammontava a circa 100.000. Questo balzo coincise con lo sviluppo dell’alienismo, oggi noto come psichiatria, come specializzazione medica.

In Italia, a Firenze, nel 1750 nasce un ospedale destinato ai folli, fino ad allora custoditi nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, l’erigendo Ospedale di Santa Dorotea, che iniziò a funzionare nel 1754, a Lucca c’era lo Spedale dei pazzi di Santa Maria Fregionaja, a Siena il San Niccolò, gestito dalla Compagnia dei disciplinati nel 1818, l’Opv di Volterra nasce come frenocomio nel 1888.

Il primo vero manicomio in Italia fu aperto ad Aversa, in provincia di Caserta, noto anche come Reali Case de’ Matti (1813), è molto interessante leggere la storia fin dalla nascita di questo istituto.

Alcuni ospedali psichiatrici furono costruiti con il contributo di personaggi illustri, come la casa di cura Sbertoli di Pistoia, fondata nel 1868 da professor Agostino Sbertoli. Le ‘Ville Sbertoli’, come furono comunemente chiamate, vennero a costituire immediatamente una clinica privata che accoglieva da tutta Italia, garantendo un’opportuna riservatezza, malati provenienti da famiglie facoltose o comunque in vista, affetti non solo da “alterazioni di mente”, ma anche da altre malattie come l’epilessia, l’alcolismo, l’ipocondria. Si trattava insomma di persone “diverse” che le famiglie di appartenenza volevano tenere nascoste. Ben presto la casa di cura divenne rinomata anche oltre confine e iniziò ad accogliere malati provenienti da tutti i paesi europei.

Nel 1902 fu Giovanni Giolitti a presentare al Senato un disegno di legge per regolamentare le strutture, basato su quattro punti fondamentali, ovvero:

  • obbligo di ricovero in manicomio solo per i dementi pericolosi o scandalosi,
  • ammissione solo dopo procedura giuridica, salvo casi d’urgenza
  • attribuzione delle spese alle provincie
  • istituzione di un servizio speciale di vigilanza sugli alienati

La legge fu approvata poi nel 1904 con alcune modifiche. La legge, però, non considerava i bisogni e i diritti del malato e dava la possibilità alle autorità locali di ordinare il ricovero presso un manicomio di qualsiasi persona, bambini inclusi. Bastava una certificazione medica e l’urgenza. Venivano internati omosessuali, prostitute, donne che non erano ritenute in grado di fare le mogli e le madri, per esempio in quanto affette da depressione. I pazienti, che vivevano in condizioni igienico sanitarie precarie, venivano sottoposti a elettroshock, coma insulinico e sottoposti a sperimentazione di farmaci, come la cloropromazina, un antipsicotico.

Con il codice penale fascista, cioè il codice Rocco, introdotto nel 1931, e fino al 1968, chi era internato in manicomio veniva iscritto nel casellario giudiziario. Durante il regime fascista, inoltre, molti dissidenti politici finirono nei manicomi e crebbe il numero degli internati, che passarono dai 60mila del 1926 ai 96mila del 1941.

Già dai primi del novecento il concetto di follia sta comunque cambiando. Per comprendere le cause della follia la scienza interroga la psicanalisi. E dunque tutto inizia nel Novecento con Sigmund Freud e la scoperta di quella straordinaria parola che è l’inconscio, o meglio delle categorie di “Es”, “Io” e “Super Io”. Sono le dimensioni che compongono la personalità e si completano tra loro solo attraverso l’equilibrio di tutte le parti.

Secondo l’interpretazione psicanalitica di Freud dunque il comportamento ordinario non è altro che il frutto di una corretta dialettica tra le parti. La follia si verifica quando la parte istintiva prevale su quella razionale; in letteratura, nel Novecento, infine il tema della follia viene sviscerato da Luigi Pirandello, che giocando sull’opposizione pirandelliana tra uomo e maschera ci presenta personaggi che cercano nella follia una via di fuga dalla vita percepita come costruzione sociale, trappola e prigione. Tutti i personaggi di Pirandello sono anarchici “forestieri della vita” che cercano l’autenticità in una forma di ribellione che la società percepisce come folle delirio.

Nella società civile intanto sono terribili le condizioni delle persone rinchiuse nei manicomi, che erano ancora regolati di fatto dalla legge Giolitti del 1904. Nei manicomi, i pazienti venivano spesso maltrattati, legati al letto, picchiati, rinchiusi, e sottoposti a elettroshock.

Franco Basaglia è una figura chiave nella storia della psichiatria italiana: è stato infatti il pioniere di un movimento radicale che ha trasformato il trattamento dei disturbi mentali nel nostro Paese.

LA RIVOLUZIONE DELLA MALATTIA MENTALE

Come Ippocrate rivoluzionò la medicina, e iniziò a trattare la malattia mentale non come forma di possessione divina ma disturbo del sistema neurologico, così Franco Basaglia ha rivoluzionato il concetto di malattia mentale, opponendosi al trattamento spesso disumano riservato ai pazienti psichiatrici in Istituti sovraffollati.

Nel 1961, divenne direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove iniziò a implementare le sue idee rivoluzionarie, promuovendo la chiusura dei manicomi e l’inserimento dei pazienti nella società, incontrando non pochi ostacoli al suo progetto che era la chiusura dei manicomi.

Questa sua visione, basata sul rispetto dei diritti umani e sull’importanza del contesto sociale nella cura delle malattie mentali, si concretizzò nella Legge 180 del 1978, conosciuta come “Legge Basaglia”, che portò all’abolizione degli ospedali psichiatrici in Italia e segnò un punto di svolta nel trattamento della salute mentale a livello mondiale. Basaglia è ricordato non solo per il suo contributo scientifico ma anche per il suo impegno etico e civile, che ha lasciato un segno indelebile nella storia della medicina e nella società.

Nel 1978, quando la legge Basaglia li fece chiudere, erano 98 gli ospedali psichiatrici in Italia, dove erano rinchiuse oltre 89mila persone. La legge Basaglia nacque proprio con l’idea di superare l’esclusione sociale delle persone malate e curarle nella loro interezza familiare e culturale facendole uscire dallo stato di reclusione dei vecchi “manicomi” e reinserendole invece nel tessuto sociale. Così, la riforma del settore psichiatrico prevista dalla legge 180 del 1978 venne subito dopo inserita nella legge 833, sempre del 1978, che istituiva il servizio sanitario nazionale nel quale sono confluite tutte le strutture sanitarie preesistenti. Prima che però i manicomi fossero rimpiazzati sostanzialmente dall’attuale rete sanitaria dei servizi per la salute mentale sono trascorsi almeno vent’anni. I sei ospedali psichiatrici giudiziari, gli Opg, in cui si viveva come in manicomio, furono chiusi definitivamente solo nel 2017 (anche se le leggi sono del 2012 e del 2014). Ora sono attive le Rems, le residenze per le misure di sicurezza, strutture con non più di 20 posti letto. Alla luce anche dei recenti fatti di cronaca, e comunque da tempo, c’è chi chiede di rivedere il sistema assistenziale dei malati di mente, che spesso risultano abbandonati a loro stessi e in balìa della pericolosità delle loro azioni.

Nel sistema pubblico il cardine dell’organizzazione territoriale, riguardo al trattamento di questi disturbi, è Il Dipartimento di salute mentale, Dsm, dotato di strutture e servizi che hanno il compito di farsi carico della domanda legata alla cura, all’assistenza e alla tutela della salute mentale nell’ambito del territorio definito dall’Azienda sanitaria locale.

Funziona tutto bene? Ovviamente no, e ci si potrebbe scrivere un trattato, ma non è certo questa la sede. Una cosa è certa, una società civile si misura su come tratta i suoi malati di mente e i detenuti. Gli estromessi dalla comunità dei cosiddetti “normali”.

Oggi si agisce molto sul concetto di inclusione, là dove possibile, del malato di mente nella società, certo non è facile e occorrono investimenti pubblici ingenti. L’auspicio è un mondo dove si trovi una forma non coercitiva di cura della malattia mentale.

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