Articolo a cura di Laura Pitzalis
E sì, sulle sue gambe perché non fu la prima donna ad arrivare in vetta al Monte Bianco ma la prima ad arrivarci scalando senza paura al pari di un uomo e, soprattutto, guidando la spedizione. Nel 1808, infatti, un’altra ragazza, la valligiana Marie Paradis, c’era riuscita ma non aveva compiuto l’impresa volontariamente ma portata a spalla da una guida, in stato semicosciente.
“Mi trascinavano, mi spingevano, sbuffavo come una gallina spennata. Chiedevo di essere buttata in un crepaccio”.

Henriette, invece, non intende essere portata da nessuno, è lei stessa a organizzare, fin nei minimi dettagli, ogni particolare della spedizione rifiutando di unirsi ad altre due spedizioni, ovviamente maschili, in procinto di partire.
Nasce a Semur-en-Brionnair in Borgogna il 10 marzo del 1794 da una famiglia di origini aristocratiche francesi. Dopo la Rivoluzione il padre era stato imprigionato, il nonno condannato a morte e la famiglia era fuggita a Bugey, nella regione del Rodano-Alpi. Ma dopo la morte del padre nel 1827 si trasferisce a Ginevra.
Sin da ragazzina si appassiona all’alpinismo che al tempo si stava diffondendo tra gli uomini ma era considerato un’attività non adatta alle donne, e preferisce una parete rocciosa su cui arrampicarsi ai salotti mondani e ai vezzi della moda. Non sposandosi mai e godendo di un certo benessere economico può dedicarsi liberamente a questa sua passione e nel 1838, quando decide di cimentarsi con la salita alla vetta del Monte Bianco, Henriette ha già scalato il Mont Jolie nei pressi di Ginevra e i 2700 metri del Jardin de Taléfre attraversando il ghiacciaio noto come Mer de Glace. Non è una novellina, insomma.
Nel momento in cui dichiara di voler tentare la scalata del Monte Bianco e guidare personalmente la spedizione, le malelingue non tardano a parlare con sonore risate e commenti sprezzanti. Tutti i suoi familiari e conoscenti tentano di dissuaderla da un’impresa tanto stravagante ed inopportuna: “Dobbiamo impedirle di attuare una tale follia” si sente continuamente vociferare.

“Ho 44 anni, 5 mesi e 24 giorni, per l’esattezza!” precisa replicando al “Journal des Demoiselles” che l’aveva chiamata ”una giovane francese”, troppi per dedicarsi a simili colpi di testa dicono in giro. Perfino i medici sono contrari sostenendo che il fisico di una donna non è adatto all’alta quota e, non sapendo cos’altro inventarsi, dichiarando la condanna sicura alla sterilità. Inoltre, è una donna nubile, quasi un peccato imperdonabile nella Francia dei primi anni del diciannovesimo secolo.
“Ti farai ammazzare, insieme agli uomini della tua squadra. Hanno delle famiglie di cui prendersi cura, lo sai, e la sofferenza di quelle donne e bambini ricadrà solo su di te“.
Lei non era ancora nata, ma sa che 50 anni prima nessuno aveva espresso quelle preoccupazioni a Balmat e Paccard quando intrapresero la stessa identica missione: scalare la cima del Monte Bianco. Henriette è stufa di sentire la gente dire che le donne sono troppo deboli e irrazionali per scalare le montagne. Ancora peggio quando una critica del genere proviene dalle donne.
Ma lei ha deciso che “può farcela e ce la farà” e in quindici giorni prepara la spedizione pensando proprio a tutto. Con cura e meticolosità sceglie guide e portatori, organizza il carico di viveri e vettovaglie necessarie per tre giorni di cammino. Puntigliosa la descrizione fatta dall’avventurosa nobildonna delle vivande per rifocillare l’intera comitiva:

“Due cosciotti di montone, due lombate di vitello, 24 polli arrosto, 6 pagnotte da quattro libbre, diciotto bottiglie di vino Saint Jean, una bottiglia di acquavite di cognac, una bottiglia di decotto di capelvenere, un barilotto di vino comune per lo spuntino dei portatori, 12 limoni, tre libbre di zucchero, tre di cioccolato e tre di prugne, la crema blanc-manger, una borraccia di latte di mandorla, una di limonata e una pentola di brodo di pollo”.
compresa una gabbia con un piccione viaggiatore che, una volta raggiunta la cima, avrebbe portato la notizia immediatamente a valle.
E ancora, bastoni ferrati, grosse corde e scale di legno per superare crepacci e dislivelli arditi.
Curiosa la lista degli oggetti utili tra i quali Henriette elenca una pomata al cetriolo per le ustioni, due diversi tipi di ventaglio, un cannocchiale, un corno per aiutare a calzare le scarpe. Nel rifornire l’equipaggiamento non lascia nulla al caso, si munisce perfino di un fornelletto a spirito per preparare il tè e di un uno specchietto, non per vanità ma per verificare gli arrossamenti della pelle provocati dal freddo.
Cura personalmente anche l’abbigliamento e poiché non esistono, a quei tempi, abiti di arrampicata per donne e non c’è nessun abbigliamento a cui fare riferimento, progetta lei stessa il suo outfit: un caldo completo con pantaloni alla zuava di pesante lana scozzese a quadrettoni, robuste ghette per le scarpe, una cuffia di pelliccia e un lunghissimo boa nero. Sopra, un cappotto di lana foderato di pelliccia e lungo fino ai piedi. Il tutto pesa più di sette chili.
Nonostante le terrificanti profezie che le vengono preannunciate e l’esiguo numero di sostenitori (si dice solo cinque), alle prime luci dell’alba del 2 settembre 1838, dopo un’estate di accurati preparativi, Henriette parte da Chamonix con cinque guide a cui si aggiungono sei portatori.

La prima parte della scalata non è impegnativa per lei abile scalatrice, ma l’ultimo tratto diventa difficile: a quota 4300 la via si fa più accidentata e il freddo è terribile. È costretta a fermarsi ogni pochi metri per riposare alcuni minuti tanto che qualcuno le propone di prenderla in braccio e portarla fino in cima ma lei rifiuta categoricamente e imperterrita continua. La cima è vicina e con un ultimo sforzo la raggiunge. Stappa lo champagne per brindare con la squadra, si fa sollevare da due uomini per permetterle di “arrivare più in alto di qualsiasi altro uomo prima”.
È un trionfo.
Al suo ritorno, a Chamonix, trova, ad attenderla, colpi di cannone e onorificenze, riceve molte congratulazioni, tra cui quella della stessa Marie Paradis, e per qualche tempo la sua impresa è raccontata in conferenze e articoli di giornale, seppur non tralasciando uno spiccato maschilismo:
“Il nostro orgoglioso Monte Bianco deve sentirsi umiliato come non mai. Martedì 4 settembre, all’una e venticinque minuti, ha visto la sua cima calpestata da un piede femminile. Colei che ha compiuto questa impresa inaudita negli annali del suo sesso è una francese”
Ora che il suo strambo progetto si è concretizzato nessuno osa più criticarla, anche i più scettici sono costretti a riconoscerne il valore anche se non diviene mai realmente famosa come alpinista, non le riconoscono mai il credito che avrebbe meritato e la sua spedizione non passa alla storia come “impresa rivoluzionaria” ma come “eroica passeggiata”, continuando a restare in secondo piano rispetto alla prima conquista della vetta da parte degli uomini.
Così rimane semplicemente il coronamento di un sogno, che non apporta modifiche sostanziali nemmeno alla sua vita: Henriette continua ad andare dritta per la sua strada arrampicandosi sulle montagne fino a età avanzata, senza più curarsi che qualcuno badi alle sue avventure, ribellandosi alle norme sociali e spianando la strada alle future generazioni di donne alpiniste. Scala ventun vette, l’ultima a 69 anni, e si dedica con interesse anche ad attività di speleologia e alla raccolta di fossili e minerali che confluiscono nel museo da lei fondato a Losanna, dove si ritira a vivere e dove muore il 13 gennaio 1871.
Uno degli obiettivi principali dell’impresa di Henriette era quello di documentare l’impresa sul Monte Bianco, di annotarne giornalmente tutti i dettagli per poi pubblicarli: nessuna donna, fino ad allora, aveva raccontato una simile esperienza. Ed è per questo che non dimentica di portarsi dietro il suo “Carnet vert”, il suo taccuino, dove registra tutto dai commenti velenosi di chi ride alla sua proposta di spedizione ai preparativi per questa, il tutto condito con un’ironia sagace che, del resto, l’aveva sempre caratterizzata. Ed è qui che annota con minuzia di particolari la scalata, dalla partenza della carovana da Chamonix, alla scalata dal Muro di ghiaccio alla vetta e il ritorno al luogo di partenza.
Rientrata a Ginevra si dedica alla rielaborazione delle sue annotazioni sino a redigerne un testo definitivo e si rivolge ai migliori pittori della città per illustrarlo con pastelli, chine ed acquerelli. Lo intitola “La mia scalata del Monte Bianco” e lo propone ad un editore di Parigi per la pubblicazione. L’accordo editoriale, però, non va in porto e l’autrice, delusa, decide di conservare la sua opera per sé e per i suoi famigliari. E il manoscritto finisce miseramente in un cassetto.

Il suo prezioso diario riemerge solo nel 1986 quando, in occasione del bicentenario della conquista del Monte Bianco, una pronipote lo affida allo scrittore e alpinista Roger Frison-Roche che lo presenta all’editore Arthaud. Dopo tanti anni di oblio, il volume è pubblicato in Francia nel 1987 ma senza illustrazioni. Poco dopo è tradotto in Italia nelle edizioni Vivalda che lo ristampano successivamente in un’edizione fedele al manoscritto originale ed illustrata con il maggior numero di tavole mai riprodotte.
E così finalmente, dopo quasi due secoli, Henriette ha visto realizzarsi il suo sogno.
CURIOSITÁ
L’impresa di Henriette D’Angeville è tornata da poco alla ribalta perché l’avventuriera, alpinista, scrittrice e presentatrice Lise Wortley ne ricreerà la scalata con lo stesso favoloso outfit e gli stessi (pochi) mezzi. E con un team tutto al femminile al seguito. L’impresa fa parte della sua missione per valorizzare le esploratrici e le pioniere donne che sono state lasciate fuori dai libri di storia, e di ispirare più donne a dedicarsi all’outdoor.