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Il salottino di TSD: intervista a Vincenzo Palmisciano

Oggi il salottino di TSD ha il piacere di ospitare Vincenzo Palmisciano, autore del saggio “Un amore segreto alla corte vicereale di Napoli, nelle opere di don Giuseppe Storace d’Afflitto”, scritto a quattro mani con la moglie Sonia Benedetto. A voi l’intervista!

L’intervista

Come è nata l’idea di incentrare il romanzo su due personaggi poco noti e finiti purtroppo nel dimenticatoio? Perché ha deciso di parlarne?”

Prima dei miei studi, lo scherzo Il monte Posilipo veniva inserito nella tradizione del romanzo pastorale di Jacopo Sannazaro. Nel mio recente volume sono riuscito a dimostrare che invece è un romanzo autobiografico del genere mistero, incentrato su una vicenda fortemente allusiva a quella vissuta nella realtà dall’autore, vittima di un duplice tradimento e prossimo a smascherare, a rischio della vita, il comportamento della viceregina Anna Carafa. Ho deciso di parlarne perché ritengo che tutti possano comprendere il genio creativo di questo poeta nelle cinque opere che sono riuscito ad attribuirgli.

Nel testo ha inserito termini in dialetto napoletano, molti dei quali ormai desueti e non più di uso comune. Non crede che ci possa essere il rischio di relegare il romanzo ad una lettura per un pubblico di nicchia?

Le opere di don Giuseppe Storace d’Afflitto sono state composte fra il 1636 e il 1648, data la sua cultura, io ho cercato con un ricco apparato di note e con le traduzioni in prosa italiana di renderle accessibili a tutti, perché l’autore, sebbene poco noto, è stato un innovatore della letteratura seicentesca. Sono consapevole che un pubblico limitato leggerà il volume, ma l’obiettivo è quello di recuperare un patrimonio incompreso.

Si parla di “ricostruzione e interpretazione dell’autore”. Qual è la sua personale interpretazione riguardo la storia dei due protagonisti e in generale sul contesto storico – sociale in cui vissero?

L’interpretazione dello scherzo Il monte Posilipo contiene molte informazioni autobiografiche relative alla donna amata, donn’Anna Carafa, e al conflitto che questa creò fra don Giuseppe Storace d’Afflitto e l’amico Girolamo Fontanella. Quest’ultimo venne infatti accusato di plagio, quando la raccolta Nove cieli fu pubblicata alla fine del 1640 esclusivamente a suo nome anziché anche a nome di don Giuseppe Storace d’Afflitto. Diversi sonetti  in essa contenuti non furono dichiarati frutto del nostro autore, nonostante fossero stati già parzialmente pubblicati nella parte prima Della Musa lirica, di cui era in preparazione la parte seconda. Nello scherzo Il monte Posilipo si narrano l’epilogo della dolorosa vicenda del letterato e tutto il tormento di un amore fedele per la crudele ricompensa ricevuta dalla donna, che ne danneggiò la reputazione con un vile atto, facendo inserire i suoi componimenti nella raccolta Nove cieli dell’amico Girolamo Fontanella, divenuto complice involontario di questo inganno. Appropriatosi indebitamente del lavoro dell’altro, il plagiatore lo pubblicò a suo nome. In presenza di Anna Carafa ci fu una contesa verbale sulla paternità dei componimenti e Giuseppe Storace d’Afflitto stava per prevalere nel conflitto, quando la viceregina lo sospese, rimandandolo all’indomani. Il giorno seguente, la controparte disse che aveva iniziato a poetare da giovane, aggiungendo che così come nel 1638 aveva composto su commissione l’ode «A Santa Caterina martire», allo stesso modo aveva scritto a pagamento gli otto sonetti Della Musa lirica, pubblicati a nome del suo committente, nel 1636. Anna Carafa decise di allontanare Girolamo Fontanella dall’Accademia degli Oziosi e Giuseppe Storace d’Afflitto dalla corte vicereale. Quest’ultimo si rivalse velatamente sulla viceregina pubblicando nel 1646 Il monte Posilipo e De la tiorba a taccone. Il Fontanella fece altrettanto non dedicandole nessuna elegia nel suo volume del 1645, mentre in precedenza le aveva dedicato il volume Ode nel 1638 e il Cielo di Venere dei Nove cieli nel 1640.

Alla base del romanzo c’è un lavoro di archivio certosino e sicuramente intenso. Quali sensazioni ha provato durante le sue ricerche?

Nell’elaborazione della mia tesi interpretativa ho cercato, mettendo in discussione le mie ipotesi iniziali, di vedere con occhi diversi tutti i contenuti riportati nel volume. Ciò ha comportato l’elaborazione di tante versioni, anche assurde o improbabili, succedutesi negli anni, sull’onda di nuovi pensieri e in risposta al desiderio di offrire, a studiosi e appassionati, i chiarimenti che io stesso avrei voluto ricevere. Dopo un continuo alternarsi tra il piacere delle scoperte, la paura della verifiche archivistiche e letterarie e i sospiri della conferma, eccomi giunto alla meta: una prima stesura del libro con incluse le traduzioni in prosa italiana delle due opere napoletane.

Sappiamo che lei pubblica anche per riviste storiche e letterarie, in particolare si tratta di studi seicenteschi, come si è avvicinato a questo lavoro che sicuramente è anche una passione?

Da ragazzo mi recavo ogni settimana alla Biblioteca Nazionale di Napoli e leggevo, rileggevo, copiavo i libri sui quaderni e così feci per interi fondi, pian piano mi rendevo conto di capire sempre più, ma con i volumi del Seicento trovavo le maggiori difficoltà e così mi appassionai a quel periodo.

Vincenzo Palmisciano lettore, come si descrive in queste vesti?

In generale, nella lettura mi vedo accompagnato dall’autore, coinvolto nelle azioni, calato nei contesti, mentre nella rilettura sono un puro osservatore di quanto leggo. Poi nei miei sogni mi ricompaiono delle scene e durante la giornata mi ritrovo a pensare ad alcuni dettagli e a volte scattano in me dei dubbi su determinati aspetti, che percepisco come incongruenti e inizio a indagare e a riflettere.

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