Viaggio nella storia

Il calendario di Natale TSD. Un viaggio alla scoperta di luoghi nascosti in Italia

Dall’1 al 24 dicembre abbiamo affrontato un viaggio entusiasmante dal nord al sud della nostra penisola alla ricerca di opere e monumenti meno conosciuti ma ricchi di fascino, storia, tradizione e bellezza.

Un avvicinarsi al Natale, come una sorta di avvento che ci ha portato ad aprire una finestrella al giorno sulla splendida Italia e sui magnifici tesori che ci vengono invidiati in tutto il mondo.

Ripercorriamo in questo articolo tutte le tappe ringraziando chi si è reso disponibile in queste settimane!

La volta del Battistero del Duomo di Padova – Alessandra Prevedello

L’iscrizione di Padova nella World Heritage List con i suoi capolavori trecenteschi parla di 8 scrigni d’arte collegati tra loro da un metaforico filo lungo 1.700 metri (filo della distanza); di un pellegrinaggio culturale unico denominato URBS PICTA; di luoghi pieni di storia che tra il 1305 e il 1397 hanno celebrato l’intrecciarsi delle relazioni tra artisti, committenti e università

La Padova del ‘300 coniugava, come tutti i centri che ad un certo momento della loro storia divengono un faro e un punto di riferimento per tutti gli altri consessi umani: i fermenti generati dal profondo impatto delle esperienze Antoniane sul tessuto e le organizzazioni del territorio (filo religioso);l’entusiasmo e la ricerca di novità che i giovani universitari (provenienti da tutta europa) diffondevano nei rioni nelle piazze nei luoghi di ritrovo e nelle aule dell’ateneo (filo culturale); la disponibilità crescente di denaro in cui le attività mercantili e il concentrarsi delle botteghe facevano da richiamo per tutti coloro che volevano affrancarsi dai vincoli della società medievale e conquistare uno spazio, una posizione, un ruolo sociale.

In questo contesto la città dei Carraresi diviene uno snodo epocale, un crocevia per cui transitano i principali artisti dell’epoca che si confrontano con le innovazioni di Giotto e ne raccontano, con i loro cicli pittorici l’evoluzione nel corso del secolo (filo del tempo): una vera e propria capitale della dialettica mecenatista che intrecciava ricchezza, eccellenza e volontà di emergere della signoria.

E poco prima della fine, Giusto De Menabuoi, nel battistero, consegnava ai posteri il suo capolavoro utilizzando le ricerche prospettiche di Giotto per dare voce a una spazialità allargata, che varcava ogni confine sconfinando nelle pareti adiacenti, nei pilastri, nelle nicchie, negli archi. Ombre, riflessi, squarci illusori, effetti ottici (legati alle scoperte della ricerca Universitaria, che raggiungerà il suo apice con Galileo). Le scene narrative sono solo parzialmente suddivise in episodi e si estendono su tutti gli spazi del battistero che è pregno di storie, denso di dettagli, e carico di suggestioni proprio in virtù di questa saturazione visiva di ogni centimetro disponibile.

Una trama fittissima i cui capi avvinghiano, cingono, contaminano corporazioni, scuole, laboratori, alberghi dei pellegrini, mulini, granai, depositi, cantine, osterie e aule dell’università. Stoffe, panni, drappi nuovi e colorati; vivi e luminosi; varietà e innovazione. (filo delle relazioni)La committenza dei lavori si deve a una donna: Fina Buzzaccarini che intendeva fare del Battistero un mausoleo in grado di ospitare le sue spoglie e quelle del marito, signore di Padova. L’opera doveva emulare per magnificenza e solennità la Cappella di Giotto e innumerevoli sono i collegamenti e i rimandi agli Scrovegni. E questo è l’ORDITO che si dipana insinuandosi tra ritrovi, i crocchi e i ricetti di una società in cui le donne stanno conquistando i loro spazi e che , secoli più tardi, renderà possibile l’affermarsi di personalità come Elena Lucrezia Corner Piscopia .

La villa di Poppea a Torre Annunziata – Ruggero Betteghella

Un saluto da Torre Annunziata, cittadina di circa 42000 abitanti che sorge nel golfo di Napoli, alle pendici del Vesuvio.

Sul territorio di Torre Annunziata si trova il sito dell’antica Oplontis, menzionata nella Tavola Peutingeriana (un’antica mappa stradale dell’impero romano) che collocava tra Pompei ed Ercolano questo insediamento urbano che probabilmente dipendeva amministrativamente da Pompei. L’area archeologica comprende una villa d’otium chiamata «di Poppea» e una villa rustica detta «di Lucius Crassius Tertius».

La villa di Poppea, attualmente l’unico monumento visitabile dell’antica Oplontis, è un grande complesso residenziale, non interamente riportato alla luce, risalente alla metà del I secolo a.C. e ampliato nella prima età imperiale. Nell’antichità la villa era affacciata a picco sul mare in posizione panoramica ed era dotata di splendidi apparati decorativi di cui si conservano eccezionali testimonianze. Potrebbe essere appartenuta a Poppea Sabina, seconda moglie dell’imperatore Nerone, o al patrimonio della sua famiglia, in base alla testimonianza di un’iscrizione dipinta su un’anfora menzionante Sucundus, un suo schiavo o liberto.

Al momento dell’eruzione l’edificio doveva essere in gran parte disabitato a causa di lavori in corso, forse avviati a seguito di danni sismici, che comportarono la rimozione di molti elementi architettonici e decorativi. La parte più antica della struttura si sviluppa attorno all’atrio tuscanico con le magnifiche pitture di II stile e comprende ambienti per il riposo, il pranzo e il soggiorno sontuosamente decorati e illuminati da finestre aperte sul giardino prospiciente il mare. La villa era provvista anche di un complesso termale privato, riscaldato dalla cucina, successivamente trasformato in un’area destinata al soggiorno. Nelle sale interne si riscontrano diversi stili di pittura: nel calidarium è possibile ammirare le pareti affrescate in terzo stile pompeiano, con elementi architettonici di carattere puramente ornamentale al centro dei quali vi sono quadretti paesaggistici, figure umane o quadri di ispirazione ellenica (tra questi spicca Eracle nel giardino delle Esperidi), nel tepidarium invece si rimane affascinati dalle architetture fantastiche tipiche del quarto stile.

Nel soggiorno si trova uno splendido affresco di secondo stile raffigurante un santuario di Apollo visibile attraverso un cancello aperto su un giardino alberato e arricchito dall’inserimento di elementi ornamentali tra cui spicca un pavone la cui coda sembra quasi venire fuori dal dipinto. Altra caratteristica della sontuosa residenza sono i giochi di architettura che mettono in comunicazione i vari ambienti con grandi finestroni allineati tra di loro. Con un solo sguardo è così possibile attraversare un’intera ala della villa.

Negli ambienti che un tempo furono la cucina della villa è ancora ben conservato un banco in muratura probabilmente adibito a piano cottura. Nella parte sottostante alcuni vani a forma di semicerchio dovevano contenere la legna da ardere con cui si cucinavano i cibi. Anche il triclinio è fastosamente decorato con affreschi dove spicca una natura morta rappresentante un cestino con fichi, elemento pittorico adatto alla funzione conviviale e prodotto con estremo realismo. Verso est si estende il quartiere servile organizzato intorno ad un peristilio con fontana centrale su cui si affacciano ambienti destinati a deposito e dormitorio dei servi. Nell’angolo sud-ovest del peristilio si apre una galleria sotterranea che, sviluppandosi al di sotto del cinquecentesco canale del Sarno, funge da collegamento con un criptoportico affacciato sul mare, le cui strutture in crollo sono state rinvenute nei recenti scavi. Attorno alla metà del I secolo d.C. il complesso si ampliò, sempre verso est, con l’aggiunta dell’enorme piscina, 61×17 metri, lungo la quale si dispongono le stanze da pranzo, per il soggiorno, alloggi per gli ospiti e piccoli giardini d’inverno ornati da splendide pitture. Studi paleobotanici hanno consentito di ricostruire la vegetazione originaria in essa presente: siepi di bosso, oleandri, limoni, platani, olivi, cipressi, rose ed edere rampicanti crescevano rigogliosi a complemento della decorazione scultorea e architettonica.

La fontana delle tartarughe a Roma – Matilde Titone

Vivere a Roma e dover scegliere un monumento da presentare non è facile, tra mille opere imponenti, importanti e storicamente eccezionali io ho scelto una piccola fontana, La fontana delle Tartarughe.

Strana scelta forse, ma tutti conoscono il Colosseo e Fontana di Trevi, mentre questa fontana di fattura rinascimentale non è poi così nota, anche se incredibilmente bella e affascinante, come una donna misteriosa. Per arrivarci si deve necessariamente passare dal ghetto, un quartiere dove è racchiusa tanta storia antica e recente non sempre piacevole, uno dei quartieri più interessanti di Roma. Il quartiere storico degli ebrei romani. Furono confinati in questo luogo intorno al 1555 da Papa Paolo IV. Si distende tra il lungo Tevere dove si affaccia il Tempio maggiore , la Sinagoga più grande d’Europa e Corso Vittorio Emanuele, la lunga arteria che divide il ghetto da Campo dei Fiori e Giordano Bruno.

Nel mezzo c’è un piccolo mondo antico fatto di botteghe dove si possono trovare oggetti introvabili altrove, mercerie piene zeppe di bottoni di tutte le forgie e, passamanerie di altri tempi, ma anche le buone magliette di lana delle nostre nonne tutto rigorosamente Made in Italy”. Tra i palazzi vecchi e stinti, logorati dal tempo, occhieggiati da finestre strette che pare spiino la strada per vegliare sugli abitanti, c’è una targa che ricorda il 1943, quando i nazisti portarono via di là circa 1000 ebrei di cui ne tornarono solo 16. E non occorre commentare. Per non dimenticare ci sono le pietre d’inciampo sparse sul manto stradale che ricordano i nomi dei tanti infelici. Sui muri i simboli del mondo ebraico, il candelabro a 7 bracci, la Torah e altri che non conosco.

È un quartiere molto sfruttato anche dal cinema, Lizzani ci girò l’oro di Roma, Steno I Tartassati, Elio Petri Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Ospeteck La Finestra di fronte. Sul lato destro della piazza, arrivando dalla Sinagoga, dove si svolge tutta la vita del quartiere, c’è un antico forno che sforna(scusate la ripetizione) specialità ebraiche nonché romane come una buonissima pizza, pane azzimo e dolci smielati come tutti i dolci orientali. Nei vari locali che costellano la stessa piazza si mangia kosher, si potrebbe fare un tour enograstronomico tra carciofi alla gudìa ottimi vini e cibi tradizionali della cucina ebraico romanesca. Tra negozi e locali di ristoro si colloca una fantastica libreria dove puoi comprare libri sulla cabala, sulla religione ebraica , volendo si possono seguire corsi di lingua ebraica o sui Talmud e i Rabbini più importanti. Un mondo tutto da scoprire.

Camminando senza meta tra arte antica come le colonne del portico d’ Ottavia che racchiude la facciata di una chiesa cristiana dedicata ai pescatori, Sant’Angelo in pescheria, ecco che arrivi in una piccola piazzetta circondata da palazzi dalle linee essenziali, nel cui centro troneggia come un’etoile dell’ Operà, lei, La Fonana delle Tartarughe.Sinuosa, leggera ,raffinata, eseguita su disegno di Giacomo della Porta, tra 1581 e il 1588 , alimentata dall’acquedotto Vergine. I lavori furono condotti dallo scultore Taddeo Landini, che avrebbe dovuto realizzare quattro efebi e otto delfini, previsti prima in marmo e poi in bronzo. I lavori si conclusero nel 1588, e quattro dei delfini previsti non furono messi in opera perché la pressione dell’acqua non consentiva l’elevazione prevista.

La fontana é composta da una vasca quadrata con spigoli smussati, con al centro un basamento con quattro conchiglie che sorregge una sorta di anafora che a sua volta sorregge un bacino rotondo in marmo, con le teste di putti sotto l’orlo dalle cui bocche aperte esce l’acqua in eccesso. Quattro efebi in bronzo giocano con quattro delfini appoggiati sulle vasche a forma di conchiglia.Delle elegantissime tartarughe restano sospese sul bordo dell’ultima vasca, nell’atto di chi vuole abbeverarsi. Le tartarughe sospese sono elementi postumi inseriti intorno al 1658 da allievi di scuola Berniniana. Alcuni dicono dal Bernini stesso ma l’ipotesi più accreditata è che siano della scuola del Maestro. Sta lì tra i palazzi antichi a far sfoggio di marmi policromi e giochi d’acqua. È rasserenante e incredibilmente romantica. È legata infatti ad una leggenda di amore e passione che vale la pena leggere.

Il Duca Mattei, cui la piazza é intestata, proprietario del palazzo omonimo pare fosse un giocatore incallito e avendo perso una cospicua somma di denaro gli venne rifiutata la mano della figlia di un signore della zona che lo considerava uno squattrinato. Ma il Duca, per vendicarsi, organizzò nel suo palazzo una sontuosa festa invitando anche il ricco signore e la figlia: dopo tutta la notte di grandi festeggiamenti, all’alba li invitò ad affacciarsi sulla piazza mostrandogli la fontana che la sera prima non c’era per fargli capire cosa avrebbe perso non acconsentendo al matrimonio, perché era stato comunque capace di far costruire una bellissima opera in una sola notte. Il matrimonio cosi avvenne ma il Duca fece murare la finestra affinché nessuno potesse più ammirare la fontana dal palazzo. Sembra una favola. Sì è una delle tante favole romane…

La Cappella Sistina di Savona – Daniela Piazza

Forse non tutti sanno che la Cappella Sistina di Roma ha una sorellina minore a Savona. Frutto entrambe del mecenatismo del papa savonese (ma nato a Celle, il paese dove io vivo) Sisto IV (Francesco della Rovere, 1414-1484), la Cappella Sistina di Savona e quella di Roma presentavano, per la diversa destinazione e collocazione, volumetrie ben diverse e impianti decorativi di qualità non paragonabile, ma mostravano anche alcune caratteristiche simili di grande interesse. Entrambe dedicate alla Vergine Maria, avevano esterni molto semplici. Entrambe, inoltre, furono costruite riutilizzando precedenti murature. Attualmente, però, dopo le radicali modifiche del 1762-64, volute dall’ultimo della Rovere, Francesco Maria, la Cappella Sistina di Savona si apre allo spettatore in un tripudio di stucchi e decorazioni rococò.La Sistina di Savona è costituita dall’unione di due parallelepipedi, di cui uno, più stretto, a base quadrata e coperto da cupola estradossata su tamburo cilindrico.La Sistina di Roma è invece un unico parallelepipedo, come la cappella papale del palazzo di Avignone, cui sembra ispirarsi.

Le sue misure sono però importanti per il loro valore simbolico: sono infatti ispirate alla meticolosa descrizione biblica del Tempio di Salomone a Gerusalemme. La Cappella savonese venne realizzata nella parte muraria e scultorea tra il 1481 e il 1483 come cappella funeraria per i genitori del papa, Luchina Monleoni e Leonardo della Rovere, il cui mausoleo venne commissionato agli scultori lombardi Giovanni e Michele D’Aria. Lombarde furono anche le maestranze che realizzarono la cappella, utilizzando però probabilmente disegni di provenienza centroitalica, forse attribuibili allo stesso Baccio Pontelli. architetto della Cappella romana. Venne utilizzata allo scopo quella che probabilmente era la sala capitolare del convento savonese di San Francesco, dove il futuro papa entrò come novizio a nove anni nel 1423 e iniziò gli studi che lo avrebbero portato ad essere un eminente teologo. Nella stessa occasione venne anche ricostruito il chiostro su cui si affaccia, in modo da far coincidere l’asse centrale con l’ingresso alla cappella.Conosciamo almeno in parte il suo aspetto originale grazie a descrizioni antiche e alle preesistenze ritrovate sotto le stuccature settecentesche durante i restauri.

La Cappella savonese in origine era più alta dell’attuale ed era coperta da una volta a padiglione lunettata su peducci abbastanza simile a quella romana (a volta ribassata lunettata), ancora visibile sopra alla controsoffittatura settecentesca.In pianta era costituita da un vano rettangolare di m. 9,10X13,40 su cui affaccia tuttora un presbiterio quadrato di m. 6 di lato (circa un terzo della lunghezza totale). Le misure sembrano calcolate sulla base del numero irrazionale √2 ma ricordano da vicino le proporzioni della Sistina romana.Entrambe le cappelle in origine presentavano una decorazione a stelle dorate su sfondo blu di lapislazzulo (sulla volta a Roma, nella cupola del presbiterio a Savona), di importante significato teologico: in alcuni scritti dell’epoca le stesse Sacre Scritture sono chiamate «cielo», un cielo le cui stelle simboleggiano le virtù dei padri della Chiesa e dei pontefici stessi. Quella romana, opera di Pier Matteo d’Amelia, venne poi eliminata per dare spazio agli affreschi di Michelangelo.Le soluzioni decorative della zona absidale savonese erano molto simili a quelle adottate a Roma: la parete era divisa in due ordini (a Roma sono tre) da un finto architrave marmoreo a fregio continuo su candelabre classiche, decorato a fogliami e motivi araldici rovereschi. Questo finto loggiato era schermato da una cortina di broccato dipinto con motivi a melagrana (frutto ricorrente anche nella decorazione del Tempio di Salomone, simbolo di ricchezza, potere e regalità). Lo stesso tipo di finto broccato decorava interamente anche le pareti dell’aula maggiore, al di sotto di un architrave a due fregi continui.

La volta dell’aula era probabilmente bianca e vi facevano mostra due chiavi tonde in pietra policroma decorate con lo stemma papale campeggiante ancora una volta sul cielo stellato.Ben diversi erano invece i temi affrontati ad affresco nel presbiterio nell’ordine immediatamente superiore a quello architettonico.Nella Sistina romana essi sono opera di alcuni dei più grandi artisti dell’epoca provenienti da Firenze, «prestati» a Sisto IV da Lorenzo il Magnifico in segno di riappacificazione dopo gli anni di crisi politica tra Firenze e Roma seguiti alla Congiura dei Pazzi (1478) ordita con la complicità di Girolamo Riario, signore di Imola e Forlì e nipote del papa, forse con lo stesso benestare del pontefice. Essi rappresentano le storie contrapposte e confrontate di Mosè e Cristo, concepite le prime come anticipazione delle seconde.Da quanto si evince dai frammenti recuperati mezzo secolo fa da G. V. Castelnovi e sistemati in locali sul chiostro (ad eccezione di qualche lacerto ancora in loco), l’abside della Cappella savonese presentava invece affreschi mariani dedicati a Natività, Annunciazione, Adorazione dei Magi e un ciclo dedicato a San Francesco.Essi furono realizzati da Giovanni Mazone di Alessandria tra il 1483 e il 1489.Si è salvata dalla copertura in stucco una vasta zona del presbiterio, in quanto coperta nel Settecento direttamente da un coro ligneo, oggi eliminato. In quella zona vediamo la citata decorazione architettonica con trabeazione e drappeggio, ai lati di una nicchia dipinta a finte mensole con oggetti. Sotto gli affreschi del Mazone sono stati scoperti frammenti di altri più antichi, appartenenti alla vecchia sala capitolare.

Durante il rifacimento settecentesco, anche nella zona absidale vennero effettuate importanti modifiche. In origine era collocato qui, sulla parete sinistra, il monumento funebre dei genitori del papa, poi spostato nell’aula maggiore. Esso era pienamente illuminato da una finestra gotica che si trovava sulla parete di fronte (altre tre analoghe finestre si trovavano nell’aula).All’interno di una ricca edicola classica, esso presenta il sarcofago e un bassorilievo con le figure inginocchiate dei genitori del papa che, in piedi alle loro spalle, li accompagna verso la Vergine con il Bambino in trono, alla presenza dei Santi Francesco e Antonio, collocati sul lato opposto.

La cornice alla base del bassorilievo continua dietro le lesene decorative laterali e anche sulla originaria parete dipinta, nell’architrave che separa la parte figurata da quella architettonica sottostante. Le figure dipinte e scolpite hanno proporzioni analoghe, in modo da creare continuità visiva, contraddetta solo dalla diversa costruzione prospettica (frontale per gli affreschi, dal basso nel rilievo).Anche il monumento sepolcrale ha forti attinenze con la cultura artistica romana e fu eseguito dai fratelli lombardi Michele e Giovanni d’Aria tra il 29 dicembre 1481 e e l’11 ottobre 1483, probabilmente su disegno di un artista centroitaliano, forse quello stesso Andrea Bregno autore della transenna sistina, che a Roma aveva realizzato anche il mausoleo del cardinale Pietro Riario nella chiesa dei Ss. Apostoli, simile nell’impostazione ma diverso per il più marcato pittoricismo.Come nella Cappella romana (dove Perugino aveva affrescato l’Ascensione, poi distrutta per dare spazio al Giudizio Universale), anche nella nostra è andata perduta l’originale immagine mariana che decorava la zona dell’altare, un polittico raffigurante la Natività tra i Santi Antonio e Francesco con Sisto IV e il cardinale Giuliano della Rovere, anch’esso opera di Giovanni Mazone. Al suo posto all’inizio dell’Ottocento fu collocato, entro la lussureggiante cornice rococò, un trittico di simile impostazione, opera di Santino Tagliafichi. L’opera originale è stata riconosciuta in un trittico custodito al Petit Palais di Avignone.La cimasa raffigurante la Crocifissione si trova invece ancora a Savona, custodita in Pinacoteca.

Oggi la Cappella Sistina si presenta come un capolavoro del Rococò, un prezioso involucro di stucchi sgargianti che ancora nascondono sotto di sè, almeno in parte, le vestigia dell’originaria creazione voluta da papa Sisto IV. Particolarmente interessante è l’unità stilistica dell’insieme, con le acquasantiere che riprendono il tipico motivo a conchiglia tanto amato nel Rococò, e il meraviglioso organo Piccaluga commissionato nel 1764, preceduto da una elegante balaustra decorata a motivi floreali (con prevalenza delle ghiande roveresche) e strumenti musicali, quasi più adatta a una sala da ricevimento che a un ambiente ecclesiastico. Il controsoffitto settecentesco, un ovale su pennacchi angolari decorati dagli stemmi della famiglia, riprende gli stessi motivi intorno vegetali a una raffigurazione dell’Ascensione della Vergine.

La Chiesa di San Nicola a Capo di Bove e il Mausoleo di Cecilia Metella a Roma – Daniele Chiari

Poco prima del terzo miglio della Via Appia Antica, la Regina Viarum dei Romani, a pochi metri dalle trafficate vie della città moderna (e da casa mia!), sorge un luogo incantato, incredibilmente suggestivo e apparentemente fuori dal mondo, ricco di storia e di testimonianze dal I sec. a.C ai giorni nostri.Ai lati dell’acciottolato romano della antica strada, che porta ancora ben visibili le tracce delle ruote dei carri che la percorrevano, sorgono uno di fronte all’altro 2 edifici importantissimi e poco conosciuti persino dagli abitanti della città, il Mausoleo di Cecilia Metella la cui costruzione risale al I sec a.C., inglobato nel Castrum Caetani del XIII sec., e i resti della Chiesa di San Nicola a Capo di Bove del XIV sec., di cui restano attualmente i ruderi di rara suggestione, con la struttura esterna e l’abside, ma senza copertura.

Visita raccomandatissima a tutti, in particolare a chi ha la fortuna di vivere qui, ma anche ai turisti che non vogliono fermarsi alle solite tappe più gettonate.Di seguito qualche notizia storica in più, buona lettura e buona visita appena potrete.MAUSOLEO DI CECILIA METELLA”La fosca torre rotonda incorniciata da 2000 anni di edera” cantata dal poeta inglese Lord Byron, è uno dei monumenti funerari più significativi della romanità.Fu costruito intorno al 30-20 a.C., in epoca augustea, per ospitare le spoglie di Cecilia Metella che, come ricorda l’iscrizione, apparteneva alla potente famiglia dei Metelli.

La struttura è quella tipica di una tomba a tumulo, costituita da un tamburo circolare che poggia su un basamento parallelepipedo in calcestruzzo.Il corpo cilindrico dell’edificio, che contiene la cella sepolcrale, è rivestito da un fregio a “bucrani e ghirlande”, tipico del mondo funerario.

Agli inizi del XIV secolo,, con l’aiuto del potente Papa Bonifacio VIII, il mausoleo, insieme ad altre proprietà dell’area, venne acquisito dalla famiglia Caetani, che lo trasformò in un castello fortificato con tanto di mura. Per l’occasione venne costruito un elegante palazzo, uno dei maggiori esempi di struttura signorile feudale presenti nelle campagne romane, i cui resti sono ancora visibili sul lato destro del mausoleo.

CHIESA DI SAN NICOLA:​ Consacrata a San Nicola di Bari il 12 Maggio del 1303, è un raro esempio di edificio gotico-cistercense a Roma.La costruzione risale agli inizi del XIV secolo, quando la famiglia Caetani progettò e realizzò un villaggio fortificato, il Castrum Caetani, con mura, case, palazzo signorile e chiesa, inglobando in esso anche il Mausoleo di Cecilia Metella e la Via Appia.Lo spazio interno dell’edificio sacro è articolato in un’unica navata con abside sullo sfondo, divisa in 7 campate; del tetto, a 2 falde e ligneo, resta solo l’impronta per l’alloggiamento delle travi.All’esterno, 8 contrafforti si alternano alle finestre monofore incorniciate di marmo.Si ritiene che la lunga presenza a Parigi di Benedetto Caetani, papa Bonifacio VIII, quando era cardinale, abbia condizionato le scelte architettoniche adottate per la costruzione di questa chiesa.

La casina delle Civette a Roma – Adriana Assini

Non troverete il Coniglio Bianco o il Cappellaio Matto nel piccolo paese delle Meraviglie dove ci affacceremo in questo sesto giorno dell’Avvento, eppure, è il posto ideale per poter sognare un po’ con gli occhi rigorosamente aperti. Ebbene sì, nella città eterna esiste un luogo dove tutto sembra farsi eco di un mondo lontano e nascosto, inducendoci a misteriosi voli solitari verso chissà quali mete.

Immersa tra pini e oleandri, palme, sambuchi, olivi e cedri del Libano, la Casina delle Civette, all’interno di Villa Torlonia, sulla Nomentana, è un gioiello di architettura, storia e arte che riserva infinite sorprese. A idearla fu un principe, uno vero, il tenebroso Giovanni Torlonia junior, uomo dalla personalità sfuggente, burbero e refrattario al prossimo, la cui misantropia era stata forse accentuata da una disgrazia, avendo infatti perso un occhio a seguito di una brutta caduta da cavallo.

Estraneo ai richiami della mondanità, l’aristocratico – finanziere, senatore del Regno d’Italia, anche Ministro di Stato – era soprattutto uno studioso di esoterismo, che passava il tempo libero tra vecchi tomi odorosi di zolfo, finché un giorno non decise di dare forma e sostanza alla sua passione per l’occulto e fece trasformare una delle costruzioni presenti nella villa in una sorta di castelletto d’impronta medievale, sulla cui porta d’ingresso ancora campeggia il suo motto preferito, “Sapienza e Solitudine”.In quell’edificio eccentrico e curato nei minimi dettagli, l’umbratile Giovanni visse poi tra bellezza e mistero fino alla sua morte, avvenuta nel 1938. Ma cosa rende tanto particolare il villino?

Con il suo aspetto insolito e il suo stile eclettico, l’edificio sorprende, incanta, incuriosisce: un alternarsi di guglie, scale, porticati, logge e torrette accoglie i visitatori dando loro “la piacevole impressione” – per rubare le parole a Pistoni, che fu a lungo custode della Villa – “di un’armonica confusione”. A dare il nome alla Casina, gli enigmatici uccelli della notte, le civette, portatrici di una simbologia contrastante che da un lato le qualifica come malinconiche messaggere di cattivi presagi; dall’altro, le elegge rappresentanti indiscusse della conoscenza ancestrale. Creature ambivalenti, questi pennuti dagli occhi enormi e il becco affilato godettero di grande considerazione già presso gli antichi greci, che raffiguravano Atena, la dea della sapienza, sempre in compagnia delle nottole. Lì, nella Casina, spuntano ovunque, ma risaltano in modo particolare sulle bellissime vetrate in stile liberty che decorano numerose finestre firmate dal Picchiarini, rinomato mastro vetraio romano che le realizzò tra il 1908 e il 1930 sui disegni di artisti del calibro di Cambellotti, Grassi, Bottazzi…

A mano a mano che ci si inoltra all’interno dell’edificio, le aspettative non vengono deluse: come in un gioco a incastro si susseguono ambienti riccamente decorati, dai nomi evocativi, dal salottino dei satiri alla stanza delle rondini, a quella dei ciclamini, dal fumoir alla sala del chiodo…Facile restare sedotti da quei luoghi, ma nei giorni feriali, quando i visitatori sono meno frequenti, bastano davvero pochi istanti per sentirsi avvolti da un’atmosfera quasi surreale, fra pareti abbellite da maioliche, mosaici, tralci d’edera in stucco, satiri dipinti, languide fate e pavoni reali in livrea blu. Dietro a ogni figura si nasconde un rimando forse accessibile solo ai cultori della scienza alchemica, ma non è necessario essere “iniziati” per avvertire un leggero brivido quando si approda alla camera da letto del principe massone, dove un inquietante e nero stormo di pipistrelli sembra lanciarsi in volo dal rosone posto al centro del soffitto. In quelle stanze dove la luce viene filtrata da vetri finemente colorati, tutto sembra sospeso tra realtà e illusione. Nessun Cappellaio Matto vi offrirà una tazza di tè, e tuttavia l’intera dimora sembra ugualmente uscita da un libro di favole. A tratti, ai più sensibili ai richiami dell’imperscrutabile basterà tendere l’orecchio e socchiudere gli occhi per sentire i sussurri del crepuscolo anche in pieno giorno…

A visita ultimata, sarebbe un peccato non attardarsi nella Villa, oggi di proprietà del Comune di Roma, per rimirarne le altre incredibili attrazioni: costeggiando boschetti di bambù e palme nane s’incontra il Casino Nobile, riuscito esempio di architettura neoclassica che per anni fu affittata al Duce per la simbolica cifra di una lira, e dove, nel 1931, venne ricevuto Gandhi. Si succedono poi obelischi e falsi ruderi, un laghetto, un tempio e una serra moresca, oltre a un teatro sapientemente ristrutturato di recente. Con un paesaggio così variegato, la passeggiata può rivelarsi lunga, ma al momento opportuno sarà piacevole fare una sosta nel punto di ristoro allestito in quella che un tempo era la limonaia, e che oggi si presenta come una struttura luminosa ed elegante dove sono stati conservati molti elementi dell’epoca, a cominciare dal tetto ricoperto da rosse tegole marsigliesi, per continuare con l’interno, in tufo, tuttora abbellito da capriate di legno e da un pavimento a scacchiera rivestito in lucido travertino.Grazie a chi è arrivato fin qui (ma anche a chi si è fermato un po’ prima).

Il Castello feudale di Monguzzo – Luisa Rigamonti

Benvenuti a Monguzzo, un paesino di neanche 2400 abitanti in provincia di Como. Il suo nome deriva dalla collina detta Mons Acutus dove sorge un castello. I canonici di San Giovanni in Monza, i suoi primi possessori, lo ricevettero in dono nel 920 da Berengario del Friuli, su concessione del Ducato di Milano, al quale tornò nel 1250. Nel XIV secolo il castello consisteva in una fortificazione provvista di mura, tetto in tegole, quattro locali interni e alcuni spazi sotterranei ospitanti prigioni e sala delle torture.

I Visconti donarono il complesso fortificato dapprima a Jacopo Dal Verme e in seguito alla famiglia nobiliare dei Bentivoglio, signori di Bologna, per un valore di 68 mila lire. Nel XVI secolo il castello fu oggetto di alcune modifiche architettoniche, consistenti in un ampliamento degli spazi sotterranei e nella realizzazione di una serie di passaggi segreti e botole. Fautore degli interventi fu niente poco di meno che il condottiero Gian Giacomo Medici, detto il Medeghino, che espugnò ingegnosamente la fortezza nel 1527.

Quattro anni dopo le truppe spagnole e sforzesche lo riconquistarono e lo riaffidarono ai Bentivoglio, che demolirono le modifiche apportate da Gian Giacomo Medici. A metà del XVIII secolo l’allora proprietaria famiglia Rosales riadattò il castello a residenza di villeggiatura facendo importanti interventi di ristrutturazione. Durante il Risorgimento, il castello divenne un luogo di ritrovo della Carboneria. Dopo gli arresti di Pellico, Maroncelli, Gonfalonieri e altri, la polizia austriaca venne a sapere che nel castello di Monguzzo si trovavano dei documenti importanti che compromettevano la sicurezza dello Stato e incaricò il famigerato Bolza di investigare. Ma il fido cocchiere del marchese Rosales, col suo interveto coraggioso e tempestivo, bruciò i preziosi documenti nel bellissimo camino seicentesco del salone.

Dopo essere stato adibito temporaneamente a scuola, il castello fu poi venduto a Ferruccio Benocci, che si operò per restaurarlo definitivamente. La morte tragica e prematura del proprietario, assassinato da ladri che si erano introdotti nella sua proprietà, non fermò l’opera di ricostruzione, continuata e ultimata dalla vedova Leonilde Trussardi, alla cui morte, nel 1972, il castello fu donato per lascito testamentario all’Ordine dei frati Fatebenefratelli, che lo hanno adibito a Centro Studi Ospedalieri dell’ordine. La struttura si erge in un bellissimo parco di oltre sessantamila mq. e consta di tre costruzioni: il castello vero e proprio, il castelletto e la pusterla. Nel corso dell’ultimo rifacimento sono stati costruiti due corridoi sotterranei di collegamento fra i tre edifici.

La parte più antica del castello è quella settentrionale, che si affaccia sul cortile d’onore dove si possono ammirare gli splendidi affreschi realizzati negli anni ‘70 dal pittore milanese Magni; tra i saloni del pian terreno spicca per la sua maestosità e il ricco arredamento la Sala dei Congressi. La biblioteca del castello vanta oltre diecimila volumi di epoca fra il XVI e il XIX secolo mentre la cappella affreschi dell’anno 1800 e due pregevoli candelabri in bronzo. Una doppia scala molto suggestiva con colonne tortili e decori goticheggianti porta ai piani superiori. Al primo piano, nel salone dove si svolgono i Capitoli dell’Ordine sono esposti i ritratti di tutti i priori. Ogni corridoio del castello è abbellito da quadri e sculture che offrono ai visitatori un’immagine della pittura e scultura del XVIII e XIX secolo. Anche gli arredi sono della stessa epoca. Al castello si accede tramite un lungo viale di cipressi, che porta a un ponte levatoio inserito nella pusterla, la quale, ricostruita sulle antiche mura e sulla primaria costruzione di vedetta, nel Medio Evo era la sede del Corpo di Guardia e dei soldati di guarnigione al castello. Il castello è aperto al pubblico solamente un paio di giorni all’anno grazie all’intervento dell’amministrazione comunale.

La Cattedrale di San Sabino a Bari – Mariagrazia Dicarlo

Il duomo di Bari, il cui nome ufficiale è Basilica cattedrale metropolitana di San Sabino, è la cattedrale di Bari, in Puglia, sede vescovile dell’arcidiocesi cattolica di Bari-Bitonto.

L’edificio attuale, che data tra il XII e il XIII secolo e probabilmente verso l’ultimo trentennio del millecento, fu costruito, per volontà dell’arcivescovo Rainaldo, sulle rovine del duomo bizantino distrutto da Guglielmo I detto il Malo (1156), del quale è possibile ancora oggi osservare a destra del transetto parte del pavimento originario che si estende sotto la navata centrale.

Prima ancora del duomo bizantino, anche per la presenza della diocesi barese che risale infatti quanto meno al V secolo, quando è attestata la partecipazione del vescovo Concordio al Concilio Romano del 465, esisteva un’antica chiesa episcopale databile intorno al VI secolo, i cui resti si trovano sotto la navata centrale, come fa pensare uno dei mosaici pavimentali che contengono un’iscrizione in cui compare il nome del vescovo Andrea (758-761). Strutturata a tre navate, con pilastri quadrati e volte a crociera costruite con blocchi di pietra posti a spina di pesce, probabilmente si trovava nel luogo in cui sorge la cripta della cattedrale attuale, l’episcopio di Santa Maria.

Ne conferma l’esistenza anche il ritrovamento di fondazioni di un edificio absidato il cui asse doveva essere disposto leggermente obliquo rispetto a quello dell’attuale cattedrale. In sostituzione di questa chiesa episcopale, nella prima metà dell’XI secolo l’arcivescovo Bisanzio (1025-1035) fece costruire una nuova chiesa terminata poi da Nicola I (1035-1061) e Andrea II (1061-1068), suoi successori. Questa chiesa fu poi distrutta da Guglielmo il Malo, durante la distruzione dell’intera città nel 1156 durante la quale fu risparmiata soltanto la basilica di San Nicola.

Per l’opera dell’edificio attuale furono usati materiali provenienti dalla chiesa precedente e da altri edifici distrutti. Consacrata il 4 ottobre 1292, la chiesa si rifà allo stile della Basilica di San Nicola. L’edificio ha poi subito una serie di rifacimenti, demolizioni ed aggiunte a partire dal XVIII secolo. Durante il XVIII secolo la facciata, l’interno delle navate, l’interno della Trulla (l’antico battistero del XII secolo, oggi sacrestia) e la cripta furono rifatte in forme barocche su progetto di Domenico Antonio Vaccaro. L’arredo interno fu invece riportato alle antiche fattezze romaniche negli anni cinquanta del XX secolo.

Tipologicamente, si tratta di un importante esempio di romanico pugliese. La semplice facciata è divisa da due lesene in tre parti che riproducono la sezione delle navate col timpano nel mezzo, gli spioventi laterali e due minori segmenti alle estremità, in corrispondenza delle arcate dei fianchi. Il coronamento ad archetti poggia, nelle ali, su mensole figurate. Nell’alto della parte mediana corrono due fregi, a racemi bizantineggianti il superiore, a rosette e archetti l’inferiore, interrotto dalla grande rosa recinta di una bella cornice semicircolare ornata di sette mensole a figure grottesche originariamente di epoca gotica, ma in gran parte opera di restauro. La bifora sottostante ha cornice a dentelli e corona di rosario, come le piccole monofore che inquadrano la rosa.I tre portali barocchi sono le sole parti rimaste dei rimaneggiamenti del secolo XVIII ma inglobano gli antichi semplici portali architravati della cattedrale dell’XI secolo. Nel muro a destra della facciata si aprono un’edicola e una rosa barocca.Il fianco sinistro è aperto da profonde arcate sulle quali corrono gallerie esafore (rifatte). Il portale laterale ha negli stipiti resti di decorazione della chiesa precedente. L’ultimo tratto del fianco è occupato dalla grande costruzione cilindrica della trulla (antico battistero trasformato in sacrestia nel XVII secolo). La testata del transetto ha tre coppie d’arcate cieche, racchiudenti ciascuna due coppie d’arcatelle minori, due piani di bifore e una rosa. Ad essa s’innesta il campanile (dell’altezza di 68,90 m), elegante e aggraziato, che si eleva sopra la linea del tetto con tre ordini di bifore, uno di trifore e uno di quadrifore, e termina con un’altra cuspide, di restauro. La facciata posteriore, che racchiude e occulta le absidi, fiancheggiata da due campanili, di cui quello destro caduto durante il terremoto del 1613), ha al centro un superbo finestrone, capolavoro della scultura pugliese della fine del XII secolo. L’ampia apertura centinata, a doppia cornice, è racchiusa in un baldacchino su colonne pensili.

Cornici, sottarco, parapetto e mensole sono coperti d’una fitta decorazione a motivi vegetali e animali d’ispirazione orientale, lavorata quasi a traforo, mentre le figure a tutto tondo (elefanti e sfingi) sono sculture di classica plasticità. La testata del transetto sud presenta una doppia archeggiatura cieca che ne divide lo zoccolo, eleganti bifore fiancheggiate da animali su mensole, e la grande rosa (XVI secolo) ad imitazione delle forme romaniche. Il fianco destro ripete le profonde arcate e le gallerie esafore di quello sinistro, il portale, però, è preceduto da un portico con colonne primitive e arcate cieche trecentesche. Al di sopra, il muro della navata maggiore, aperto da monofore, è coronato da un bel fregio che continua quello della facciata. Il tiburio ottagonale, d’ispirazione orientale, si eleva sulla crociera celando la calotta della cupola: spartito da esili lesene con archetti falcati coronato da un bel fregio a intrecci vegetali

Internamente la chiesa, che è stata spogliata di tutte le strutture barocche, si presenta nella sua nuda solennità, con tre navate separate da due file di otto colonne slanciate, provenienti probabilmente dall’edificio bizantino. Sopra gli archi, a doppio profilo, si aprono finti matronei con ampie trifore racchiuse in grandi archi di scarico. I capitelli in stucco e il soffitto a travature scoperte sono rifatti secondo il modello dell’unico capitello originario. Nel pavimento della navata centrale, resti di marmi policromi (secolo XIV), con una rosa riproducente il disegno di quella della facciata.

Alla settima arcata sul lato destro della navata, si nota il pulpito ricomposto (1955) con frammenti originari dell’XI e XII secolo.Il transetto è sopraelevato e limitato verso la navata mediana da plutei del XIII secolo imitanti stoffe orientali, appartenenti al recinto presbiterale firmato da Peregrino da Salerno; ai lati della scalinata che sale al presbiterio sono collocati due leoni romanici. Alla parete del transetto destro, resto di mosaico. Al di sopra si scorgono i resti del ballatoio pensile che recingeva ambedue le testate del transetto e la navata centrale. Sopra il presbiterio si eleva la cupola (35 metri) poggiante su tre barconi e sulla calotta dell’abside; quattro cuffie raccordano il quadrato di base al tamburo ottagonale in cui si aprono le finestre e che una cordoncino di nicchie separa dalla calotta circolare. Il ciborio dell’altare maggiore è stato ricomposto con i resti dell’originario, opera di Alfano da Termoli (1233). Il 1° gradino presenta una serie di formelle quasi quadrate intagliate a motivi floreali, il 2° intrecci di forme geometriche, nelle cui campiture s’inserisce costantemente un pavoncella; il 3° reca un’iscrizione. Le tre absidi semicircolari riproducono le proporzioni delle navate; in quella maggiore, aperta dal finestrino centinato, gira il coro marmoreo con al centro la cattedra episcopale, come il ciborio e il pulpito ricomposti su resti originali. Nell’abside sinistra, resti di affreschi (XIII-XIV secolo), il sarcofago del vescovo Romualdo Arsione (morto nel 1309) e quello che dà ospitalità al corpo di santa Colomba di Sens, precedentemente conservato nello scomparso Convento di San Vincenzo e completamente restaurato nel 2005.Usciti dalla trulla, a pianta dodecagona, una scala replicata anche sulla navata di destra, porta alla cripta, trasformata nel Settecento, rettangolare e absidata, rispondente al transetto della chiesa con 24 colonne su tre file. Vi si conserva la tavola bizantineggiante della Vergine Odegitria, patrona principale della città insieme a san Nicola, secondo la tradizione giunta dall’Oriente nell’VIII secolo, ma in realtà d’epoca più tarda e, nell’altare maggiore, le spoglie di san Sabino, vescovo di Canosa e titolare della Cattedrale.Nella sagrestia di destra è collocato un altare con un dipinto raffigurante, probabilmente, san Mauro, ritenuto primo vescovo di Bari. Nelle navate laterali sono da ammirare le formelle bronzee della via Crucis dello scultore Francesco Nagni (1897-1977).Nel palazzo della Curia, adiacente alla cattedrale, ha sede il museo diocesano, che custodisce l’Exsultet, una preziosa pergamena d’ispirazione bizantina, finemente miniata, anteriore al 1050. Le immagini sono capovolte rispetto al testo e quindi rispetto al diacono che lo leggeva. In questo modo i fedeli, quando si srotolava dall’ambone la preghiera pasquale per il canto, potevano guardare i sacri disegni. Tra l’altro anche chi non conosceva il latino poteva avere un’idea immediata del racconto.Nella superba cattedrale si verifica qualcosa di fenomenale che si ripete da circa mille anni, ma che è venuto “alla luce” solo pochi anni fa ed in maniera del tutto casuale durante i lavori di restauro che interessarono la Cattedrale nel 2002, e dopo che fu data una nuova disposizione dei banchi che rendesse visibile il rosone musivo ricoperto fino ad allora completamente da questi; fu solo a quel punto e qualche tempo dopo, durante il solstizio d’estate, che il sacrista della Cattedrale, Michele Cassano, nella chiesa deserta e illuminata dal sole, notò che la forma del rosone della facciata disegnata dai raggi solari lambiva il mosaico del pavimento che ha le stesse forme e dimensioni del rosone posto in alto, fino a combaciarvi. Il sacrista a quel punto intuì di aver scoperto qualcosa di veramente importante nascosto alla storia per quasi un millennio.

L’attuale Cattedrale insiste su un succorpo costituito dalle persistenze archeologiche dell’antico Duomo bizantino e delle strade e degli edifici a esso prossimi. Alcuni di questi ambienti si sono preservati nel corso dei secoli poiché in età moderna sono stati utilizzati come fosse e ossari comunicanti con gli altari privilegiati del tempio soprastante. In epoca recente sono stati effettuati rilievi archeologici in seguito ai quali l’area del succorpo è stata musealizzata, ed è oggi visitabile. Nello specifico, entrando da una porticina a ridosso delle scale che portano alla cripta, è possibile visitare i resti dell’antico Duomo, comprendenti una porzione piuttosto estesa del mosaico policromo che adornava il pavimento, alcuni ambienti funerari, resti di una strada di epoca romana e le vestigia di due piccole chiese bizantine, delle quali permangono addirittura brani di affresco.

La Basilica di Sant’Ambrogio a Milano – Renato Carlo Miradoli

Visita ai luoghi del secolo di Milano, dall’editto di tolleranza a quello… dell’intolleranza.

Intervistato all’indomani del Febbraio del 313, data dell’Editto di Milano o di tolleranza, il quale rese lecite tutte le religioni (e non solo quella cristiana), non sappiamo se un qualsiasi abitante dell’Impero romano, persino se residente proprio a Milano (o, meglio, Mediolanum per chiamare la città con il suo nome latino) avrebbe mai saputo dire di essere consapevole, o meno, delle vicende politiche di quei giorni cariche di una portata storica decisiva per il futuro del potere politico e religioso.Né sapremo mai se un pronipote, discendente di costui, il 27 Febbraio del 380 d.C., data dell’Editto di Tessalonica in cui l’imperatore Teodosio il Grande definisce i pagani dementes vasanique, avrebbe potuto attribuire tale iniziativa all’operato di Ambrogio, vescovo sempre della città di Milano.

Eh sì, perché all’azione pastorale in senso lato di Ambrogio bisogna far risalire la politica religiosa di Teodosio, il quale con l’editto di cui sopra (seguito dal Concilio di Costantinopoli del maggio- giugno dell’anno successivo), oltre a definire i pagani come abbiamo detto, proibisce a tutti coloro che non si fossero convertiti alla fede cristiana (quindi vengono esclusi tutti gli eretici, Ariani e Priscilliani inclusi) di fare testamento e di ereditare. Eppure, Milano fu il luogo comune ai due fatti, ovverosia il luogo della tolleranza verso tutte le religioni da parte dell’impero, nonché dell’intolleranza attraverso il magistero di Ambrogio che si incarica non solo di rimproverare Teodosio in un caso, ma anche di scomunicarlo, in un secondo, e di obbligarlo a un’umiliazione pubblica.

Il primo caso, infatti, (388 d.C.) Teodosio non può esercitare la propria autorità contro un pogrom antiebraico ad opera del vescovo della città di Callinico sul fiume Eufrate e di un gruppo di monaci furibondi e invasati, nonché invasanti una plebaglia già inferocita contro gli Ebrei: Teodosio vorrebbe condannare il vescovo a ricostruire a sue spese la sinagoga, ma Ambrogio scrive all’Imperatore e lo minaccia, invitandolo a non procedere contro il vescovo in questione ricordandogli di essere solo l’autorità politica, mentre egli, Ambrogio, è il rappresentante di Dio.

Non sorprende di vedere qui l’evoluzione naturale della teologia politica di Ambrogio, per la quale l’Imperatore non è più come al tempo di Costantino Isapòstolos (‘Ισαπόστολος), cioè uguale agli apostoli: Dio è rappresentato dalla Chiesa e anche il potere laico deve ad Essa obbedire. Tale tendenza dottrinale arriva dunque a proibire da parte dello stesso Teodosio nel 392 i riti e la stessa religione cosiddetta pagana, che ancora sopravviveva legittimamente nel pagus, cioè nella campagna (da cui il nome). E non distante da questa pastorale aggressiva è la scomunica dell’imperatore Teodosio il quale (anticipatore in questo di un Enrico IV molto più tardi nel tempo e in compagnia sempre dell’arcinoto Gregorio VII) deve supplicare il perdono al vescovo Ambrogio, e a noi piace pensare che la scena (fase anticipatrice appunto dell’episodio di Canossa!) si sia svolta nella splendida basilica di Sant’Ambrogio di Milano (“in quello vecchio là, fuori di mano”, per citare Giuseppe Giusti).

Ecco, dunque, i monumenti e i luoghi che rappresentano questi eventi: la chiesa (ricostruita in stile barocco e neoclassico nella odierna via Torino) di san Giorgio dove la tradizione vuole che si sia svolto il rito della firma dell’Editto di Milano, cioè nel precedente palazzo imperiale, e (inevitabilmente) la splendida basilica di sant’Ambrogio, originale e costruita nel 384 durante il regno del grande vescovo.

E vi prego di scusare il nostro intervistato il quale non si rese decisamente conto in quel giorno di febbraio, mentre egli gironzolava non già nella via dello shopping tradizionale meneghino del sabato pomeriggio, di vivere in un periodo fondamentale per la cultura occidentale essendo spettatore involontario di grandi fatti, sì proprio più grandi lui! Una curiosità è la colonna, proprio a lato della facciata dell’attuale Chiesa, vestigia del circo, che proprio di fianco a Sant’Ambrogio vedeva le corse dei cavalli, sulla quale sono visibili due buchi che la tradizione vuole fatti dal diavolo in persona, che a testate cercava di sbollire la propria rabbia per non essere riuscito a far cadere in tentazione lo stesso Ambrogio.

La Basilica di San Venanzio a Camerino – Anna Maria Fedeli

La Basilica di San Venanzio è uno dei luoghi dell’anima, ricco di spiritualità e di devozione per tutti noi camerti, in quanto dedicata al patrono della città, Venanzio, giovane martire.

È un luogo del cuore, la riapertura al pubblico della Basilica nel 2019 ha rappresentato un momento di rinascita e di grande gioia per la nostra comunità, dopo la chiusura in seguito ai danni provocati dal sisma del 2016. Un luogo del cuore per la generosità dell’animo umano, in quanto la sistemazione e ristrutturazione per la sua riapertura (dopo solo 3 anni dal terremoto!!), è stato possibile grazie ad un un’intervento privato della Fondazione Arvedi Buschini di Cremona che ha sostenuto l’intero contributo finanziario e la direzione dei lavori.

Il terremoto del 2016, purtroppo, non è stata l’unica volta che la basilica è stata colpita da gravi eventi sismici. Il terremoto del 1799 la distrusse gravemente e fu ricostruita interamente l nel secolo successivo su un progetto dell’architetto Luigi Poletti, un esponente di spicco dello stile neoclassico (tra le sue opere realizzate, la ricostruzione a Roma della Basilica di San Paolo fuori le mura e il progetto della Colonna dell’Immacolata a Piazza di Spagna).Dell’originaria costruzione, in stile tardo gotico, rimane testimonianza il monumentale portale, risalente al XIV secolo, ricco di fregi e colonnine ed il magnifico rosone.

L’interno della Chiesa è composto da tre navate a croce latina, contraddistinte da una serie di colonne. Al centro del transetto, una doppia rampa di scale conduce alla cripta dove è conservato il sepolcro medievale di San Venanzio. Venanzio era un giovane nobile romano, vissuto sotto l’imperatore Decio. A seguito della sua conversione al Cristianesimo, subì una serie di supplizi e poi decapitato. Il giovane martire venne sepolto nel luogo dove poi è stata edificata la basilica che ha tenuto vivo il secolare culto e che tuttora è fortemente sentito da tutta la comunità. Narra la leggenda che al momento della decapitazione la testa del martire, cadendo rimbalzò per ben tre volte facendo sgorgare tre zampilli d’acqua, per questo motivo viene definito un “Santo acquaiolo”.

In onore della festa del Santo Patrono, che si festeggia il 18 maggio, si svolge la Rievocazione Storica “Corsa alla Spada e Palio” che risale fin dal XV secolo, dai tempi della Signoria dei da Varano…”dame, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese. Le celebrazioni hanno inizio la sera del 17 maggio con l’Offerta dei Ceri, la lettura del proclama,segue poi, nel piazzale antistante alla Basilica, l’accensione del “focaraccio”. Altre manifestazioni si succedono nei giorni seguenti, il Palio degli Arcieri da Varano, l’apertura delle taverne ed altre manifestazioni affini e collaterali alla rievocazione, per poi culminare, nella domenica successiva al 18, nella Cosa alla Spada e Palio .Trenta atleti, dieci per ogni terziero, che si contendono la Spada che andrà al vincitore della Corsa ed il Palio che verrà assegnato al terziero che otterrà il massimo punteggio, secondo il piazzamento dei propri atleti.

Il Borgo Medievale di Pietramelara – Luigia Amico

Pietramelara è un piccolo paese della provincia di Caserta il cui abitato si sviluppa fin dai tempi più remoti attorno all’antica torre longobarda situata sulla sommità del borgo medievale. La storia del paese affonda le sue radici in epoche molto lontane, grazie ad alcuni ritrovamenti archeologici non si esclude che il primo insediamento umano in questi territori si possa datare addirittura in epoca preromana.

Osservando attentamente la struttura del centro storico è chiaro che la realizzazione del borgo fu frutto di una attenta e precisa pianificazione che implicava la costruzione di una rocca a difesa e guardia dell’intero territorio. Il borgo medievale, fiore all’occhiello del paese, si articolava in una complessa pianta radiocentrica composta da vicoli, vie e cunicoli collegati tra loro e il cui asse era rappresentato da un’antica torre di origine longobarda circondata da una cinta muraria stretta da dodici torri di avvistamento, ad oggi purtroppo andate distrutte. Pietramelara, e di conseguenza il suo borgo, fu fondata nel primo medioevo da due principi longobardi, Landolfo e Adenolfo, e fece parte dei possedimenti di Montecassino per poi passare “nelle mani” del feudo di Roccaromana, paese limitrofo. Alla morte di Filippo de Roccaromana, il feudo passò alla corte di Napoli che lo divise e lo diede in concessione passando dai Colonna ai Monforte che trasformarono il castello da fortezza a elegante palazzo.

Purtroppo a nulla valsero le migliorie, non solo estetiche, perché nel 1496 Pietramelara fu presa d’assedio dagli Aragonesi e rasa al suolo; durante il sacco morirono i 2/3 degli abitanti e la restante parte venduta come schiavi, solo sette famiglie furono lasciate libere e a loro si deve la ricostruzione sulle rovine del paese.Passeggiare tra le vie del borgo è un’esperienza fantastica, sembra quasi che tra quelle vie il tempo si sia fermato, ogni pietra, muro o arco è intriso di Storia, si possono facilmente immaginare dame e cavalieri attraversare il selciato, cavalli entrare al trotto attraverso la grande porta di accesso chiamata “porta della Madonna della Libertà”, esistente ancora oggi. Arrivati in cima alla torre, oggi diventata un museo, al turista si presenta uno spettacolo mozzafiato, da lì infatti si possono ammirare tutti i paesi circostanti nei loro intricati percorsi.

Adiacente al borgo è possibile visitare il Palazzo Ducale “Paternò/Caracciolo”, struttura di costruzione rinascimentale, rappresenta uno dei primi esemplari nel meridione di dimora signorile con annesso grande parco-giardino.Il giro turistico nel centro storico di Pietramelara prevede diverse tappe tra cui la chiesa e il monastero degli Agostiniani di inizio 1400, ma il luogo di culto per eccellenza è la Chiesa madre di San Rocco. La struttura ecclesiastica fu edificata nel XVI secolo su una piccola cappella già esistente nel 1308 e dedicata a San Leonardo, l’odierna chiesa è famosa per il suo portale in legno interamente scolpito a mano e per gli affreschi sull’abside dei Galloppi, la chiesa fu costruita dai pietramelaresi in onore di San Rocco per essere stati protetti contro le pestilenze causate dalla guerra e dal sacco del 1496; si narra che per accelerare i tempi di costruzione, considerato il periodo di povertà, il popolo adottò una legge abbastanza particolare: per i bestemmiatori era prevista come pena il pagamento di una somma pecuniaria, se il peccatore non aveva disponibilità economica era costretto ad offrire il proprio lavoro per evitare l’impiccagione davanti all’ingresso della chiesa.

Gli affreschi di Nazareno Diotallevi a Montemarciano – Monia Fratoni

A Montemarciano sotto il portico di via Falcinelli sono presenti gli affreschi dell’artista Nazareno Diotallevi, rappresentanti le quattro stagioni, animali e paesaggi. Del pittore Diotallevi si hanno pochissime notizie biografiche. Non sappiamo con certezza se sia quel Nazareno Diotallevi, artista romano allievo di Francesco Coghetti presso l’Accademia di San Luca a Roma.

Tuttavia nell’affresco vi é un richiamo sicuro ad un’eredità artistica romana (se non altro di studio e ricerca) sopratutto delle Logge Vaticane. Al centro di quest’opera risaltano quattro figure femminili che simboleggiano le arti: architettura, scultura, pittura e musica. É interessante il groviglio di natura e animali (alcuni forse anche molto simbolici) come il pavone, la cui coda scintillante é l’emblema dell’ampia discesa del Sole e della luce che emerge come un ventaglio dall’oscurità all’alba.

Uccello dell’immortalità il pavone ha una vista eccezionale, sottintesa dai molteplici “occhi” della coda che ricordano il dio “che tutto vede”. Un altro animale che compare nella bellissima tessitura di rami e intrecci di fogliame é il gallo, animale consacrato al solare Apollo, ma anche Mercurio prese le sembianze di un gallo come guida delle anime. É colui che nell’universo dei rami della natura, riferisce ciò che vede agli dei. La simbologia dei diversi animali presenti nell’affresco é sicuramente un terreno tutto da indagare e ancora da approfondire. In una delle lunette si può ammirare un momento di vita nella via principale di Montemarciano nell’Ottocento con la chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo sullo sfondo.

In un’altra lunetta si distingue ancora lo stemma di Montemarciano raffigurante il dio Marte (infatti il nome Montemarciano deriva da “mons Martis” cioè monte di Marte).

L’elefantino della Minerva a Roma – Claudia Re

A due passi dal Pantheon sorge una piazzetta al cui centro esatto spicca un monumento non troppo conosciuto eppure originalissimo, il cosiddetto Elefantino della Minerva, realizzato su progetto di Gian Lorenzo Bernini.L’obelisco egizio in granito rosa del VI sec. a.c. sorretto dall’Elefantino fu rinvenuto integro nell’estate del 1665 nel giardino del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, nel luogo dove anticamente sorgeva un tempio dedicato appunto a Minerva e, prim’ancora, a Iside.

Sua Santità Alessandro VII Chigi volle che il monolite rinvenuto fosse impiegato per abbellire la piazza antistante la basilica, sulla falsariga dell’operato di Sisto V che era riuscito a sfruttare gli obelischi sia dal punto di vista urbanistico, rendendoli strategici punti di ritrovo, che propagandistico: con la loro simbologia solare, infatti, essi erano facilmente associabili alla divinità e quindi a Cristo, e ciò li rendeva perfetti, una volta sormontati da una croce, per inculcare in chiunque li vedesse il messaggio del trionfo della religione cristiana su tutte le altre. A differenza del predecessore, però, papa Chigi voleva che la base dell’obelisco della Minerva fosse animata, e per questo interpellò Gian Lorenzo Bernini, che non solo era suo buon amico da lungo tempo, ma aveva pochi anni prima innalzato un altro obelisco non lontano da lì, in piazza Navona, creando per esso come “piedistallo” la spettacolare Fontana dei Quattro Fiumi, per volontà e delizia di Innocenzo X Pamphili.

Per decifrare i geroglifici scolpiti sull’obelisco Alessandro VII si rivolse invece al gesuita Athanasius Kircher, all’epoca la massima autorità in materia, che aveva già affiancato lo scultore nel progetto della fontana pamphiliana, e che avrebbe poi pubblicato la “traduzione” del testo inciso in Obelisci Aegyptiaci (…) interpretatio hieroglyphica, Roma, 1666. Il tema della parte decorativa avrebbe dovuto alludere alla sapienza, rappresentata dalla enigmatica scrittura, allusione al sapere degli antichi, e alla forza, anche d’animo, necessaria a sostenerla. Bernini buttò giù dapprima diversi disegni (quasi tutti in BAV), il più ardito dei quali presenta una figura maschile erculea a sostenere l’obelisco in falso. Sua intenzione era infatti replicare la meraviglia ingegneristica riuscitagli con la Fontana dei Fiumi: porre cioè un obelisco su una base in falso, sul vuoto, scaricando il peso ai lati dando l’illusione che lo straordinario artificio fosse dovuto più al prodigio che alla scienza.

Il domenicano padre Paglia contestò però la fattibilità di un simile sostegno nel caso dell’obelisco della Minerva e propose un suo progetto che prevedeva di collocare l’obelisco su sei piccoli monti, alludendo così allo stemma di papa Chigi, con ai lati quattro cani recanti una torcia ciascuno in bocca, a rammentare l’ordine al quale apparteneva lui stesso: i “Domini Canes”. Troppo autocelebrativo, Alessandro VII scartò la proposta di padre Paglia e si affidò a Bernini che, resosi conto che la statua di un uomo stante, per quanto colossale, non avrebbe potuto in effetti reggere in falso il monolite, che era cmq alto oltre 5 mt, rispolverò un’idea già proposta negli anni ‘30 per il giardino dei Barberini, venutagli all’epoca in mente sull’onda di un evento annotato da Giacinto Gigli nel suo Diario di Roma: “Maggio 1630. In questo mese fu condotto a Roma un Elefante animale, che già per cento anni non se ne era visto, da che ne fu mandato a donare uno dal Re di Portogallo a Papa Leone X nel 1514.

Ma questo era di un homo privato il quale anco faceva, a chi voleva vederlo, pagare un giulio”. Molti anni dopo, sempre Gigli c’informa: “Luglio 1655. Fu condotto in questi giorni a Roma un elefante femmina, che haveva 25 anni et era gravida, et era ammaestrata a fare diversi giochi meravigliosi con la sua proboscide muovendola a guisa di mano, secondo che dal padrone era comandato.”Dunque Bernini aveva visto coi suoi occhi un elefante vivente, in un tempo in cui animali del genere non erano facilmente accessibili. Il motivo iconografico dell’elefante obeliscoforo compare inoltre anche nel criptico Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, del 1499: una delle incisioni che accompagnano il testo mostra infatti un elefante che sostiene una guglia. Sappiamo che una copia di Hypnerotomachia Poliphili era nella biblioteca personale di Alessandro VII, che l’aveva riempita di postille, ed è dunque probabile che anche lo stesso il pontefice abbia caldeggiato, ad un certo punto, l’impiego di quel particolare animale, tradizionalmente associato alla saggezza e universalmente noto per la sua prestanza fisica e che infine, nell’Iconologia di Ripa (un libro ben noto a Bernini, che lo aveva fra i suoi) è associato alla temperanza e alla religione e, quindi, al papa stesso. Tuttavia padre Paglia, assieme ad altri domenicani, obiettò ancora che neanche una statua raffigurante il pachiderma avrebbe potuto sostenere in falso un obelisco, scaricando cioè – come aveva inizialmente proposto Bernini – il peso a terra tramite le sue quattro cilindriche zampe.

Alessandro VII stavolta si trovò d’accordo e lo scultore, per accontentarlo, ricorse a uno stratagemma: avrebbe riempito il vuoto tra le zampe dell’elefante con un cubo di pietra ma lo avrebbe fatto alla sua maniera, senza mancare di ricordare l’ostracismo del domenicano.L’esecuzione materiale dell’Elefantino fu affidata a Ercole Ferrata, un suo brillante allievo, che si basò sui disegni dell’indaffaratissimo maestro, impegnato giorno e notte in San Pietro, e sul bozzetto in terracotta (già Barberini oggi in coll. priv. Corsini a Firenze). I lavori iniziarono nell’aprile del 1666 e si conclusero nel luglio 1667.Un po’ più piccolo del reale – tanto da essere soprannominato dai romani “er purcino de la Minerva” – l’Elefantino sorregge il monolite sormontato da una croce volgendo la testa un po’ di lato. La posizione strategica della gualdrappa da parata, arabescata dai monti chigiani e sormontata da una portantina che funge da alloggiamento per l’obelisco, risolve genialmente il problema della stabilità: è tanto lunga da toccare quasi il basamento e copre così il blocco monolitico sotto la pancia dell’animale che, di fatto, regge il peso dell’obelisco: è davvero difficile accorgersi della sua presenza, se non lo si guarda davvero bene! Potrebbe sembrare affaticato, ma i suoi grandi occhi ridenti sembrano alludere a uno scherzo: non a caso mostra le poderose terga al convento dei domenicani, sede del Sant’Uffizio e, soprattutto, residenza del critico padre Paglia che così avrebbe potuto intendere per sempre l’opinione di Bernini sulle sue velleità di ingegnere.

A tal proposito non mancò nemmeno un anonimo distico che mise in bocca all’elefantino parole forti: Vertit terga Elephas, versaque porboscide clamat Kiriaci fratres hic ego vos habeo; cioè “L’elefante volge le terga e con la proboscide volta all’indietro grida: Frati domenicani ecco dove mi state!”. La coda leggermente spostata verso sinistra fa inoltre sembrare che sia in procinto di… ma non esageriamo!Fu lo stesso Alessandro VII, invece, a curare la composizione delle iscrizioni sul piedistallo, come sappiamo da alcuni documenti in BAV (Cod. Chig. I, VI, 205, f. 304-1):SAPIENTIS AEGYPTI INSCULPTAS FIGURAS AB ELEPHANTO BELLUARUM FORTISSIMA GESTARI QUISQUIS HIC VIDES DOCUMENTUM INTELLIGE ROBUSTAE MENTIS ESSE SOLIDAM SAPIENTIAM SUSTINERE (Chiunque qui vede sull’obelisco figure scolpite della sapienza d’Egitto sorrette dall’elefante, la più forte delle bestie, intenda ciò come prova che è necessaria una mente robusta per sostenere una solida sapienza)VETEREM OBELISCUM PALLADIS ABGYPTIAE MONUMENTUM E TELLUREERUTUM IBI IN MINERVAE OLIM NUNC DEIPARAE GENITRICIS TORO ERECTUM DIVINAE SAPIENTIAE ALEXANDER VII DEDICAVIT ANNO SAL. MDCLXVII. (Questo antico obelisco monumento della pallade egizia [Iside] venuto dalla terra un tempo posto nella piazza di Minerva ora dedicata alla madre di Dio eretto alla divina sapienza [da] Alessando VII anno della salvezza 1667)

Al sapere c’è un’ulteriore allusione: sulla gualdrappa, dove sono presenti i sei monti sormontati da una stella a otto raggi (anch’essa arme chigiana) e una decorazione a rami di quercia (altra arme Chigi), si scorge, mimetizzato appena sotto la sella-portantina, un grugno che sembra proprio la faccetta dell’Uomo Verde, che è collegato a Osiride, il dio egizio che muore e rinasce – e che, nelle pitture egizie, è rappresentato con la pelle verde – a sua volta rimando a Cristo. Questo elemento era stato già inserito da Bernini nella Fontana dei Quattro Fiumi: l’obelisco di piazza Navona e quello di piazza della Minerva sono gli unici due obelischi innalzati a Roma in tutto il secolo Seicento, entrambi ad opera di Bernini ed entrambi alludenti al trionfo della sapienza divina su quella umana. L’Elefantino della Minerva fu l’ultima opera di Bernini per il pontificato di Fabio Chigi: l’obelisco risulta innalzato nel febbraio 1667, e il monumento inaugurato l’11 luglio del 1667, quando il papa era morto da poco più di un mese. Non è l’opera più spettacolare realizzata dallo scultore per il suo pontificato ma di certo è una delle più originali, che non manca, pur ammonendo, di strappare un sorriso.

Il Cimitero di Bonaria di Cagliari – Laura Pitzalis

Era consuetudine, da piccola, andare il 1 novembre con il nostro papà a fare una passeggiata al Cimitero di Bonaria ma non per visitare le tombe dei nostri parenti defunti ma per ammirare veri e propri capolavori dell’arte funeraria che a Cagliari dal primo Ottocento fino a primi del Novecento avevano acquistato pregio e valore grazie ad eccellenti artisti.Quello che affascinava noi bambini, però, non era l’aspetto artistico di questi monumenti funebri ma le storie che racchiudevano, che nostro padre raccontava con minuzia di particolari.

Di quelle passeggiate mi è rimasta una sensazione emozionale ricca d’intensi ricordi, di atmosfere magiche, quasi di un viaggio in un posto irreale, fantastico.Ecco ora vorrei parlarvi di questo luogo sperando di suscitare in voi la stessa curiosità, emozione della Laura bambina.

IL CIMITERO MONUMENTALE DI BONARIA Con l’apertura, nel 1829, del Cimitero di Bonaria si pose termine anche a Cagliari alla lunga consuetudine di seppellire i morti all’aperto o nel chiuso delle chiese e dei conventi. La svolta avviene quando anche in Italia si estese l’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804. Fu costruito secondo i criteri del cimitero ottocentesco europeo ma certi aspetti lo caratterizzano e lo rendono unico: innanzi tutto sorge su un’antica necropoli punico-romana, poi si eleva sulla collina, con i gradoni realizzati da Gaetano Cima, e infine per la scelta di abbinare ai cipressi la flora tipica della macchia mediterranea.L’area cimiteriale, allora in aperta campagna, di proprietà dei Padri Mercedari e della Mensa Vescovile, fu acquistata dalla municipalità per una grossa somma di denaro e il progetto fu affidato al capitano militare Luigi Damiano. I lavori si conclusero nell’arco di appena due anni, dai primi del 1827 al 29 dicembre 1828, data dell’apertura ufficiale del cimitero.Il primo a essere tumulato, il 1 gennaio del 1829, fu il commerciante Lorenzo Basciu, della cui tomba si è ormai persa ogni traccia.

Vista la vicinanza al trecentesco santuario ove si venera il simulacro della Madonna di Bonaria, protettrice dei marinai e patrona massima della Sardegna, (oggi affiancato da una più recente e imponente Basilica), il nuovo camposanto assunse il nome di Cimitero di Bonaria.

All’inizio della seconda metà dell’800 con Regio Decreto del 25 aprile 1867, Cagliari cessa di essere Piazzaforte del Regno d’Italia e inizia ad abbattere gran parte delle sue vecchie mura pisane con relative porte. In questo periodo in città arrivano diverse famiglie provenienti dal Piemonte, Liguria, Toscana, Napoli, ma anche dall’estero, che con la loro attività commerciale e imprenditoriale vanno a formare una nuova classe sociale: la media e, soprattutto, l’alta borghesia, che va a fronteggiare la “nobiltà”.La sfida tra nobili e borghesi nella ricerca del “bello” e dell’“elegante” si ripercuote anche nella realizzazione dei monumenti funerari: vengono contattati gli artisti più famosi per realizzare dei sepolcri che testimoniassero oltre il dolore anche l’agiatezza raggiunta dal singolo o dall’intera famiglia. Il sepolcro diventa, quindi, uno status symbol, a dispetto dell’uguaglianza delle tombe stabilita dall’Editto di Saint Cloud.

Percorrendo i viali del nucleo originario del cimitero e ammirando i monumenti, possiamo percepire le memorie antiche della Cagliari nobile e borghese che in quegli anni emergeva: il francese Louis Rogier, commerciante di tessuti che da Parigi si trasferì nell’isola; l’imprenditore di Rimini Enrico Serpieri; l’industriale Pietro Magnini e l’ingegnere Ottone De Negri, giunti nell’isola per lavoro e assassinati a Urzulei nel 1876 da un gruppo di banditi; il canonico Giovanni Spano, che commissionò prima della morte la sua sepoltura riutilizzando un sepolcro romano proveniente da una necropoli vicina, arricchito di decorazioni in bassorilievo.

Oggi il Cimitero Monumentale di Bonaria, incluso nella lista dell’ASCE nel 2009, ci offre la possibilità di ammirare una stupenda galleria d’arte a cielo aperto, grazie a numerosi sepolcri, piccoli tesori artistici, realizzati dai più importanti scultori dell’epoca, tra cui Giovanni Battista Villa, Agostino Allegro, Tito Sarrocchi, Giovanni Albertoni, Giovanni Pandiani. Ma quello che più di tutti lasciò un’impronta significativa della sua arte fu il piemontese Giuseppe Maria Sartorio, il “Michelangelo dei morti”, quello che con il suo tocco delicato e preciso ha reso le statue quasi viventi.C’è da rimanere estasiati guardando il monumento da lui scolpito dedicato a Giuseppe Todde la cui singolarità è data dal ritratto della vedova, Luigia Oppo: è lei, infatti, la figura dominante il cui corpo, segnato da un accenno di artrosi quasi impercettibile eppure presente, è avvolto da un ampio scialle di pizzo, elegante e fiera con i suoi splendidi gioielli e un dito che tiene il segno in un libro, indice della sua cultura.

O in quello del piccolo Efisino, all’interno della cappella Devoto, morto nel 1887 ad appena 33 mesi. Il piccolo è raffigurato con grande realismo, vestito con gli abiti e le scarpine della festa, seduto su una seggiolina, con ancora tra le mani un cavallino a dondolo mentre la testa è reclinata da un lato e il braccio destro cade penzoloni. Sembra addormentato. Struggente l’epitaffio voluto dai genitori:“Cattivo! perché non ti risvegli?”.Qui l’arte funeraria non è memoria dei morti ma raffigura il dolore e la devozione dei vivi.E ancora, sempre del Sartorio, nell’area chiamata “Terrazza dei bimbi”, il monumento alle sorelline Mauri, una seduta con le mani giunte e l’altra in piedi con le braccia sollevate (purtroppo in parte danneggiata) chiedono consolazione per i propri cari.Al loro fianco la statua Maria Ugo Ortu, accuratamente vestita con gli abiti dell’epoca, che si affaccia da un piccolo parapetto con il cappellino poggiato su di esso, il viso pensieroso e morbidi riccioli sulle spalle.Sui due fratelli Ninì e Rino Rozier sappiamo poco: nella scultura di Sartorio sono portati via, insieme, da un angelo alato. Sotto il monumento un’ iscrizione tragica:“Ho visto quanto basta, preferisco tornarmene a giocare lassù, dove si è più felici”.

Non posso, infine, non citare il monumento dedicato a Francesca Warzée, L’ultimo bacio, quello che da piccola mi aveva maggiormente impressionata. Realizzato dal Sartorio nel 1894, raffigura il figlioletto della defunta che, vestito alla marinara, porge l’ultimo bacio alla madre sul letto di morte. Nel farlo solleva il pesante drappo funebre con le frange e si sporge aiutandosi con un cuscinetto.Possiamo pensare il Cimitero Monumentale di Bonaria come uno scrigno di memoria e nostalgia che, una volta aperto, ci avvolge con quell’atmosfera creatasi nel corso degli anni che non può lasciarci insensibili. Ma anche uno scrigno di storie assolutamente coinvolgenti e a tratti inquietanti, tra esoterismo, superstizione e costume che portano alla scoperta di misteriose e diafane presenze.Ma questa è un’altra storia …

Villa e Giardino Bardini a Firenze – Donatella Palli

Se un giorno qualsiasi di sole vi avventurerete nel vialetto che sale sulla riva sinistra dell’Arno tra la collina di Montecuccoli e le mura medievali rimaste (come sapete gran parte delle mura di Firenze furono abbattute dall’architetto Giuseppe Poggi durante i lavori di risanamento della città 1865-70 per Firenze capitale) vi accorgerete di essere tra i pochi visitatori destinati ad un’esperienza incredibile.

Tra vialetti tortuosi vi si aprirà una grande scalinata barocca, costruita nel XVII secolo e adornata di statue e fontane che culmina con un piccolo edificio/belvedere dal quale si gode una spettacolare vista sulla città. Attraversare il grande parco di quattro ettari tra bosco all’inglese, giardino all’italiana, parco agricolo, orto e frutteto che, in primavera, sarà una completa esperienza sensoriale con un tunnel di glicini, due grotte, sei fontane decorate da mosaici, un tempietto, numerose coltivazioni di piante di rose, iris, viburni, camelie, e oltre sessanta varietà di ortensie.

Arrivati in cima alla collina ecco la villa Bardini, dal nome del suo ultimo proprietario l’antiquario Stefano Bardini che nel 1913 acquistò l’intero complesso e diede il via a grandi rinnovi e modifiche. La villa, costruita nella prima metà del Seicento su progetto dell’architetto Gherardo Silvani dispone di sessanta tra stanze e saloni per una superficie totale di 3800 mq su quattro livelli. Solo dal 1996 l’intero complesso appartiene allo stato che ne ha avviato il restauro e l’apertura al pubblico data dal 2006. Come si è arrivati al possesso da parte dello stato di una proprietà privata? L’erede di Stefano Bardini, il figlio Ugo, morendo senza eredi, (1965) aveva lasciato una disposizione testamentaria complessa: l’ente interessato a rilevare la proprietà doveva acquistare una o due opere d’arte databili non oltre il XVI secolo da destinarsi, se pittura, alla galleria degli Uffizi e, se scultura, al Museo Nazionale del Bargello.

Solo nel 1996, grazie all’interessamento di Antonio Paolucci, l’allora Ministro per i Beni Culturali, si arrivò al termine delle trattative: per gli Uffizi si acquistarono due pannelli di polittico di Antonello da Messina e per il Bargello l’arme monumentale in pietra della famiglia Martelli, opera di Donatello. Dal 2006 ad oggi, Villa Bardini si adopra ad offrire un vasto panorama di iniziative che vanno dalle mostre temporanee di grandi artisti di varie epoche, tra cui Caravaggio, Boldini, De Pisis, Fattori, Primo Conti, Steve McCurry e molti altri. Dal 2008 esiste uno spazio espositivo permanente dedicato al pittore Pietro Annigoni. In estate la rassegna “Cinema in Villa” sulla terrazza Belvedere ed inoltre rappresentazioni teatrali, concerti, corsi di giardinaggio e di potatura degli olivi rendono questo luogo bellissimo da frequentare. Dopo una chiusura di alcuni mesi, attualmente è in corso la mostra di Galileo Chini e il Simbolismo Europeo.

Il Battistero di Albenga – Maria A. Bellus

Albenga è una città della riviera Ligure di ponente ed ha un bellissimo centro storico che rivela le sue origini romane e il suo fiorente periodo medievale La città conserva l’edificio paleocristiano più importante di tutta la Liguria, il battistero, unica costruzione rimasta intatta dell’Albenga tardo-romana e bizantina.

Il Battistero venne eretto tra il V e VI secolo d.C. per opera di Costanzo ai tempi dell’Impero Romano, che divenne imperatore nel 421 con il nome di Costanzo III. Sorge sull’antico livello della città a quasi 3 m sotto l’attuale livello ed è adiacente alla Cattedrale di San Michele Arcangelo. ll Battistero di Albenga è di notevole interesse per quel che riguarda la composizione architettonica. Ha una pianta ottagonale interna e decagonale esterna.

Un tamburo ottagonale, rientrante rispetto al tetto del corpo inferiore, si erge nella zona centrale e sulla sua superficie esterna si aprono otto monofore. Tra le finestre della zona inferiore, quattro presentano, a chiusura, una lastra lapidea traforata e decorata. Nel restauro degli anni Cinquanta ne è stata inserita una quinta, riprendendo le forme dell’antico. Inoltre, due aperture sono state chiuse da mattoni alternati che lasciano passare aria e luce. L’attuale copertura è frutto di un importante restauro di fine Ottocento.

La volta originale in muratura è andata distrutta durante un errato intervento di restauro nel 1898. Nel corso dei lavori sono emerse alcune anfore tardo-antiche utilizzate per l’alleggerimento della cupola; attualmente il Battistero è sormontato da una struttura in legno dei primi anni del 1900.L’interno è caratterizzato dall’originaria vasca battesimale, anch’essa ottagonale all’interno, mentre all’esterno è a stella dove avveniva la celebrazione del sacramento del Battesimo per “immersione”. Sono inoltre presenti i fonti battesimali di età tardo-medioevale e di fine XVI secolo. La volta della nicchia centrale presenta il magnifico mosaico policromo, una preziosissima testimonianza di arte paleocristiana, dove sono espressi i misteri della fede cristiana attraverso una ricca simbologia con intensi colori blu e giallo. Un cielo blu tempestato di stelle a otto punte, sistemate in file ordinate. Al centro è riprodotto il monogramma di Cristo, formato dalle lettere greche chi e rho sovrapposte, entro un alone circolare di tonalità azzurro chiaro

Ai lati dell’ingresso si trovano due tombe ad arcosolio di periodo altomedievale, di cui una presenta una decorazione in stile longobardo dell’VIII secolo che riveste l’intera fronte del sarcofago. Ultimamente nel Battistero vengono celebrati molti Battesimi ed è una cerimonia suggestiva in un ambiente che rilascia un’atmosfera unica .

La Chiesa di Santa Maria dei Servi a Padova – Mariagrazia Pazzaglia

A Padova Via Roma è una delle antiche vie di collegamento tra il centro della città e l’area meridionale di Prato della Valle. Al centro della via incontriamo la Chiesa di Santa Maria dei Servi che fu edificata tra il 1372e il 1390, per volontà di Fina Buzzaccarini, moglie di Francesco il Vecchio da Carrara.

L’edificio sorse sulle rovine del palazzo di Nicolò da Carrara raso al suolo dopo che egli tradì nel 1327 la signoria schierandosi con gli Scaligeri. L’accesso alla Chiesa avviene normalmente per il portale laterale che si apre nel porticato, le cui eleganti arcate (1511) sono rette da colonne di marmo rosso di Verona, provenienti dalla Cappella trecentesca dell’Arca del Santo nella Basilica di Sant’Antonio. La chiesa conserva opere d’arte insigni tra cui il Crocifisso ligneo opera di Donatello. La paternità del Crocifisso fu attribuita solo nel 2006 dopo che, grazie ad un lungo e minuzioso restauro, affidato ai laboratori della Sovrintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici di Udine, è stata asportata una patina bronzea applicata nell’Ottocento ed è così tornata alla luce una delle più straordinarie sculture lignee policrome del XV secolo: il pathos, l’anatomia perfetta, la misuratissima e monumentale dimensione umana collocano il Crocifisso dei Servi tra i primi lavori di Donatello.

Nel febbraio del 1512, per 15 giorni il Crocifisso in pioppo di quasi due metri collocato tra altare e presbiterio sudò sangue dal volto e dalla parte sinistra del petto e il fenomeno si perpetuò sino alla Settimana Santa. Il vescovo Paolo Zabarella riempì un’ampolla del liquido miracoloso. Questo reliquario viene esposto ogni primo venerdì del mese durante la celebrazione della S. Messa delle ore 18.30. All’interno della chiesa, si può ammirare un monumentale altare barocco di Antonio Bonazza sul quale è posizionata la statua quattrocentesca di Madonna con il bambino.

Accanto al monumentale Altare della Madonna è visibile l’affresco devozionale con Cristo morto e la Vergine e San Giovanni raffigurati a tre quarti; l’affresco è posto all’interno di un’edicola marmorea policroma lombardesca ed è opera di Jacopo Parisati da Montagnana (come si vede dalle iniziali sul petto di San Giovanni) databile agli anni ’90 del 1400. Sulla lunetta è raffigurato Dio Padre benedicente, attorniato da angeli, che sta guardando il figlio, il quale ha portato a termine la redenzione del genere umano. Secondo alcuni l’opera fu dono dello stesso pittore che divenne gastaldo della scuola de’ Servi nel 1489 ed è considerata come una delle maggiori opere dell’artista rinascimentale.

Il tempio dell’Annunziata di Camerino – Raffaelina Di Palma

Secondo un racconto leggendario, narrato dallo storico Camillo Lili ( Dell’Historia di Camerino 1649) il Tempio Ducale dell’Annunziata fu edificato sul luogo dove, nel 1494, una pia donna trovò una piccola immagine della Vergine, dipinta a caratteri bizantini su tavola. L’icona, sempre secondo la leggenda, “fuggita” dalla casa di un bestemmiatore, (e per questo denominata “Madonna della bestemmia”), fu subito oggetto della devozione popolare, tanto più che la Vergine sembrava lacrimare e predire gravi sciagure per la città.

Giulio Cesare Varano, Signore di Camerino, fece voto di edificare sul luogo del miracoloso ritrovamento una chiesa dedicata alla Madonna dell’Annunziata alla quale, la sua famiglia, era particolarmente devota. La realizzazione della fabbrica (1493-1508), portata avanti da maestranze locali, fu discontinua. Il breve dominio di Cesare Borgia (1502-1503) interruppe la costruzione. Nel 1502 la Signoria fu assediata e conquistata dai Borgia: Giulio Cesare e tre dei suoi quattro figli furono catturati e uccisi. Giovanni Maria, l’unico figlio, fortunosamente, scampato all’eccidio, riprese il potere nel 1504.

Nel romanzo, “SONO TORNATA”, la scrittrice Clara Schiavoni, descrive dettagliatamente i pericoli e gli ostacoli che dovette superare, ma alla fine riuscì a ritornare a Camerino e a riportare in auge la dinastia dei Varano. Realizzò il voto paterno e nel 1509 affidò la chiesa ai Padri Fiesolani di San Girolamo che la mantennero fino al 1669, quando subentrarono i Barnabiti. La presenza in quegli anni a Camerino di Baccio Pontelli, l’architetto fiorentino, al servizio della famiglia Varano e le strette affinità fra il tempo camerte e Santa Maria di Orciano (Pesaro) di cui è certa la sua paternità, fa ritenere che, anche il Tempio dell’Annunziata, sia opera sua.

Il Tempio è lungo m 36,50, largo m 16, alto m 10,50, la navata principale è larga m 6,50; le colonne si elevano per m 6 compresi i capitelli. L’ambiente interno offre una serena spaziosità nella classicità delle linee; è uno dei rari esempi di intatta architettura rinascimentale delle Marche. Che la famiglia Varano tenesse in gran conto il Tempio è attestato da una loro cappella nella navata destra, con due iscrizioni e un grande quadro, ora scomparsi. Dal 1799, (il terremoto che rase completamente al suolo Camerino), al 1875 sostituì come chiesa parrocchiale quella di San Venanzio, distrutta proprio da quel sisma.

Chiusa al culto e passata al demanio fu proprietà dell’Università prima e del Comune poi. Quasi tutte le decorazioni parietali sono andate perdute a causa di usi impropri. Nel novecento, fu utilizzato come filanda, deposito di scotano, pinacoteca, granaio, archivio di stato, (chi più ne ha più ne metta), subendo spoliazioni e modifiche fra cui l’innalzamento del pavimento, rifatto due volte. L’icona della “Madonna della bestemmia ”fu trasferita nella basilica di San Venanzio da dove fu trafugata nel 1968: da allora non si sono più avute notizie. Il Tempio costruito in pietra arenaria è fondato sulle mura urbiche. All’esterno ha come unici ornamenti uno stemma del duca Giovanni Maria e un elegante portale trecentesco.

L’interno, rinascimentale, è a tre navate terminanti in absidi semicircolari. Dieci colonne corinzie, monoliti di arenaria sostengono archi a tutto sesto e volte a crociera; poggiano su alti plinti e terminano con capitelli recanti emblemi dei Varano. I basamenti delle colonne interrati per la costruzione di altri pavimenti se venissero riportati al primitivo piano di costruzione l’edificio ne guadagnerebbe in armonia tra elementi longitudinali e verticali. Nelle pareti laterali si aprono delle nicchie, l’ultima, nella navata sinistra, conserva l’unica decorazione pittorica rimasta a vista; un affresco datato 1508 raffigurante il Battesimo di Gesù. Attribuito alla scuola del Perugino il dipinto è stato ascritto a Marchisiano di Giorgio, un artista di origine slava che ha lasciato varie opere fra Camerino, Tolentino, Sarnano ed altri centri della zona.Prima del sisma del 2016 il Tempio dell’Annunziata era stato adibito a sede di mostre e di conferenze. E’ un monumento di rara bellezza; la speranza è che possa tornare a “vivere”.

Permettetemi una nota personale: come volontaria ai monumenti ho passato molte ore in questo Tempio ad accogliere i turisti. E’ un luogo ricco di spiritualità. E’ stata un’esperienza straordinaria. Descriverlo per l’avvento TSD mi ha dato un’emozione incredibile: ho rivissuto quelle ore!

Il complesso monumentale di Santa Chiara a Napoli – Eliana Corrado

Oggi vi porto nel cuore di Napoli, in un luogo sintesi di arte, storia, bellezza, serenità: il complesso monumentale di Santa Chiara.Esso comprende una Chiesa gotica (Ostia Santa o Sacro Corpo di Cristo, poi Santa Chiara), il monastero ed il convento. Sorse nel 1310 per volontà del re angioino Roberto I, detto il Saggio, e della devota moglie, Sancia di Maiorca. Situato in quello che oggi è il cuore del centro antico di Napoli – e che all’epoca, invece, costituiva il fuori le mura della città – è un complesso a suo modo rivoluzionario: fu infatti tra le prime strutture a ospitare sia un monastero femminile, quello delle Clarisse, che uno maschile, grazie all’autorizzazione elargita da Papa Clemente V il 20 giugno del 1312.

La basilica di Santa Chiara fu costruita su modello gotico provenzale, a navata unica, perimetrata sui lati da dieci cappelle e preceduta dalla facciata con arco a sesto acuto e nella quale spicca l’antico rosone traforato. Per far affrescare la basilica Roberto D’Angiò, su consiglio di Boccaccio, scelse il miglior pittore dell’epoca, ovvero Giotto. Ad abbellire le pareti della navata, campeggiavano scene che descrivevano la vita della Madonna, i miracoli di San Francesco e di Santa Chiara. Ma di queste immagini giottesche resta un ricordo sbiadito a causa di chi, durante il Seicento, le occultò sotto strati di stucco.

Tuttavia, è ancora poco chiaro se affrescate direttamente dalla mano del Maestro o dalle maestranze della sua bottega. Solo all’interno dei luoghi conventuali è sopravvissuta qualche traccia della scuola giottesca. Ma il vero vanto dell’intero complesso monumentale, ciò che lo rende un luogo unico al mondo è il meraviglioso chiostro maiolicato. Ristrutturato interamente nel Settecento da Domenico Antonio Vaccaro su commissione dell’allora badessa Suor Ippolita di Carmignano, la quale voleva un luogo sì spirituale ma che fosse sintesi di eleganza e cura per il bello, in conformità con il gusto delle donne che l’avrebbero frequentato, ovvero le future Clarisse di stirpe nobile.

E così fu. Il Vaccaro progettò un ampio chiostro decorato con maioliche, diviso in quattro parti dall’incrocio di due viali e puntellato da ben 64 pilastrini di forma ottagonale. I pilastri, decorati con tralci di vite, sono collegati tra loro da sedute interamente maiolicate che recano scene popolari, agresti e mitologiche, mentre su un solo schienale è riportata l’immagine tratta dalla vita quotidiana monastica: una suora che sfama dei gattini.Il Chiostro è infine perimetrato da un porticato splendidamente dipinto nella prima metà del XVII secolo sia nelle arcate che sulle pareti, creando un armonioso pandant con i colori delle piastrelle.

Secondo una delle tante leggende che animano ogni luogo partenopeo, nel chiostro di Santa Chiara aleggia il fantasma della regina Giovanna I d’Angiò, la quale, dopo essere stata assassinata nel castello di Muro Lucano, non fu sepolta in terra consacrata, ma gettata in una fossa comune. Un’altra interpretazione, invece, riporterebbe che il fantasma non sia quello di Giovanna I, ma di Sancha di Maiorca, moglie di Roberto d’Angiò, che alla sua morte fu costretta a prendere i voti.Si dice che chiunque incroci gli occhi di questa anima in pena, che essa sia Sancha o Giovanna poco importa, sia destinato a morire all’istante.Il 4 aprile del 1943 un bombardamento sventrò la basilica riducendola in macerie. Si salvò solo il chiostro del Vaccaro. Ma alla fine del conflitto mondiale una nuova ristrutturazione restituì al popolo la sua Chiesa.

Chiesa di San Donato a Genova – Daniela Castagnino

Oggi vi porto a Genova nel cuore della città vecchia,dove nascosta tra gli edifici e le logge medievali si trova l’antica Chiesa di San Donato.La chiesa venne eretta nell’XI secolo per onorare la figura del Vescovo martire aretino Donato.In zona infatti vi era presente una comunità di mercanti provenienti da Arezzo.

Nel 1189 la chiesa venne consacrata ed affidata alla Collegiata dei Canonici.Come ricordato da una lapide sul portale, la chiesa poteva indire messe in regime di “Indulgentia plenaria” garantendo l’assoluzione ai crociati di ritorno dalla Terrasanta. La chiesa rappresenta l’esempio più rilevante di romanico genovese in particolare per il bellissimo campanile (torre nolare) ottagonale decorato con un doppio ordine di bifore e trifore.

L’interno è a pianta basilicale a tre navate, ciascuna con proprio abside diviso da dodici colonne: sei colonne sono romaniche di reimpiego e sei con rocchi bianchi e neri con capitelli romanici. Dalla navata di sinistra si accede alla Cappella di San Giuseppe, un tempo oratorio della Corporazione dei falegnami. Al di sopra dell’altare è collocata la pala del pittore seicentesco Domenico Piola, raffigurante il Bambino Gesù insolitamente tenuto in braccio da San Giuseppe Tuttavia il dipinto più prezioso qui custodito è L’adorazione dei Magi un trittico opera del pittore fiammingo Joos van Cleeve.

Ed ora alcune curiosità: In una teca è custodito ed esposto l’atto di battesimo di Nicolò Paganini datato 28 ottobre 1782.Su una colonna della chiesa appare un graffito raffigurante un veliero, eseguito tre il 1300 e il 1400, da una mano anonima con minuziosa bravura. Per finire non poteva mancare una leggenda: nel 1650 il nobile Stefano Raggio, che viveva nei pressi della chiesa, venne arrestato per cospirazione ed imprigionato in una cella del Palazzo Ducale. Durante la detenzione continuò a professare la sua innocenza e per non subire l’onta dell’esecuzione in piazza si tolse la vita. Da allora sembra che il suo fantasma, vestito con una tunica rossa, si aggiri fra le colonne della chiesa palesandosi al tramonto nelle sere d’autunno.

Il Castello Ursino a Catania – Alfio Verzì

Si visita un’antica magione: il Castello Ursino di Catania, detto anche Castello Svevo. Costruito per volontà di Federico II di Svevia, deve il suo nome “Ursino” probabilmente all’antica definizione di “Castrum Sinus” ovvero il “castello del golfo”. Fu eretto a partire dal 1239 come testimoniano due lettere scritte dallo stesso Federico: una all’architetto militare Riccardo da Lentini nella quale gli ordina di preparare tutto il necessario per la sua costruzione ed un’altra datata 1240 nella quale sollecita i cittadini catanesi a versare al suo incaricato la somma di 200 once per la sua costruzione. L’edificio aveva importanti funzioni militari per la difesa costiera; esso infatti sorgeva verosimilmente ai margini della città medievale su un altopiano circondato dal mare.

Il castello è stato per alcuni periodi residenza dello stesso imperatore e, con il suo aspetto austero e massiccio, era il simbolo dell’autorità e del potere imperiale svevo in grado di tenere a freno la cittadinanza catanese spesso ostile e ribelle. Nel 1266 Manfredi, figlio di Federico II, venne sconfitto dagli Angioini e il maniero passò sotto questa dinastia. La famosa rivolta dei Vespri Siciliani – ribellione scoppiata a Palermo all’ora dei vespri nel Lunedì dell’Angelo del 1282 – pose però fine al regno degli Angioini, dando inizio al dominio degli Aragonesi di Spagna. I reali spagnoli utilizzarono il castello come fortezza e residenza reale. In questo periodo storico il castello fu luogo di importanti eventi politici: nel 1295 vi si riunì il Parlamento Siciliano, che dichiarò decaduto Giacomo II ed elesse Federico III a re di Sicilia. Nel 1392 Catania si rivoltò contro gli Aragonesi e il presidio regio si chiuse nel castello.

Tra la fine del ‘300 ed i primi del ‘400 il Castello restò residenza ufficiale dei sovrani e della corte, mentre nella seconda metà del XV secolo fu sede di sessioni parlamentari e residenza viceregia. Dalla fine del Cinquecento, il castello entrò in una fase di declino e venne adibito a carcere. Le grandi sale del piano terra furono suddivise da nuovi muri e solai per creare i cosiddetti “dammusi” piccolissime celle oscure in cui erano detenuti i prigionieri. Di tutto questo si ha testimonianza grazie ai numerosi graffiti realizzati dagli stessi carcerati e rinvenibili tutt’oggi in tutti gli ambienti del piano terra, soprattutto nel cortile interno.

L’architettura del castello è a pianta quadrata, i quattro angoli sono dotati di torrioni circolari con due torri mediane sopravvissute (in origine erano quattro). Le mura sono realizzate in opus incertum di pietrame lavico. Il lato settentrionale è quello principale con quattro finestre anche se originariamente non presentava aperture per renderlo meno vulnerabile agli attacchi nemici, qui l’entrata del castello era difesa da un ponte levatoio e da mura difensive i cui resti sono ancora visibili nel fossato di fronte all’entrata. NeI lato sud troviamo una porta secondaria detta “porta falsa” che, per mezzo di uno scivolo (che probabilmente era in legno e pietra), conduceva all’imbarcadero a mare ricavato oltre il bastione; il lato sud del castello infatti fino alla metà del XVI secolo era direttamente prospiciente la spiaggia e le acque del mar Jonio. Il definitivo allontanamento dal mare e l’innalzamento del livello del terreno circostante al castello fu dovuto alla colata lavica del 1669 che lo cinse quasi totalmente e sommerse i bastioni.

Nel lato est si trova una meravigliosa finestra di età rinascimentale con un pentalfa (stella a cinque punte) in pietra nera lavica. L’ingresso si trova nel prospetto nord, sotto una nicchia con una scultura raffigurante un’aquila sveva che afferra una lepre, simbolo del potere del sovrano Federico II sulla città etnea. Al suo interno si sviluppava la corte e vi rimane un bel cortile con scala esterna in stile gotico-catalano costruita in età rinascimentale, intorno al cortile interno c’erano le quattro grandi sale fiancheggiate da sale minori, dalle quali si accede alle torri angolari. Funzionalmente combinò sia la funzione di reggia (palatium) che quella di maniero (castrum). Attualmente è sede del museo civico che ospita una sezione archeologica con circa 8040 pezzi tra epigrafi, monete, sculture, pitture, sarcofaghi fittili greci, romani e mosaici ed una pinacoteca che, tra l’altro, conserva l’unica copia coeva della Natività del Caravaggio rubata a Palermo nel 1969 e mai ritrovata, realizzata dal pittore siciliano Paolo Geraci nel 1628.

Il Duomo di Monza – Valentina Ferrari

Oggi visitiamo il Duomo di Monza.

Un po’ di storia …Il Duomo venne fondato alla fine del VI secolo dalla moglie del re longobardo Autari e poi di Agilulfo, la regina Teodolinda, il cui ruolo fu centrale nella conversione dei Longobardi dall’arianesimo al cattolicesimo. Teodolinda lo volle come cappella del vicino palazzo reale, in una zona allora marginale del piccolo borgo di Monza, a breve distanza dal fiume Lambro. Certamente la basilica era già costruita nel 603 quando vi fu battezzato l’erede al trono Adaloaldo. Straordinaria testimonianza dei primi secoli di vita è il prezioso Tesoro, formato dalla suppellettile liturgica e dai donativi offerti dalla regina (che nella chiesa alla sua morte venne sepolta) e da altre opere di oreficeria e avorio dell’inizio del X secolo.

Nel cambio di secolo, tra Duecento e Trecento, si colloca il momento decisivo di trasformazione dell’antica basilica nell’attuale Duomo, questa volta sotto il segno dei Visconti. La prima fase edilizia si conclude nel 1346, anno della consacrazione dell’altare maggiore. Una seconda campagna costruttiva, motivata dalla necessità di ampliare l’edificio, cade a metà del secolo. Artefice di questa seconda e più solenne fase è Matteo da Campione, esponente di quella stirpe di costruttori proveniente dalla zona dei laghi tra Lombardia e attuale Canton Ticino, alla quale i Visconti commissionarono tante imprese edilizie e decorative del Ducato nel corso del Trecento. Egli fu certamente interprete dell’aspirazione dei Visconti a realizzare una grande basilica per le incoronazioni imperiali, secondo la tradizione germanica che imponeva all’imperatore di assumere tre corone: quella d’argento ad Aquisgrana, quella d’oro a Roma e quella “di ferro” appunto a Monza (o a Milano).A Matteo spetta anche la costruzione delle due cappelle gemelle ai lati dell’abside maggiore. Da menzionare quella di sinistra dedicata a Teodolinda e decorata tra il 1444 e il 1446 dalla famiglia di pittori lombardi Zavattari che realizzarono il celebre ciclo di affreschi tardogotici.

Nella seconda metà del Cinquecento si avvia una profonda rielaborazione della zona absidale, mentre, alla fine del secolo, viene anche costruito il nuovo campanile, a sinistra della facciata. La torre campanaria, con la sua altezza di circa 75 metri, svetta nel cielo di Monza e costituisce un significativo punto di riferimento nel paesaggio della Brianza. La sua costruzione iniziò nel 1592 e terminò nel 1606, ma soltanto il 18 settembre 1628 il cardinale Federico Borromeo benedisse le campane. Nel 1644 viene gettata la volta della navata centrale. I primi decenni del Settecento segnano anche una forte ripresa decorativa, che trasforma l’edificio in una sorta di antologia della pittura tardobarocca. La stagione neoclassica è segnata dall’altare maggiore progettato da Andrea Appiani (1798) e dal nuovo pulpito di Carlo Amati (1808).Alla fine dell’Ottocento si collocano le grandi opere di restauro conservativo e stilistico della cappella di Teodolinda e soprattutto della facciata, mentre un ulteriore recentissimo restauro appunto della facciata l’ha resa davvero stupenda!

La Corona Ferrea. Gioiello del Duomo è la Corona Ferrea, venerata come reliquia: al suo interno, infatti, si trova un cerchietto in ferro che, secondo la tradizione, fu ricavato da uno dei chiodi usati per la crocifissione di Cristo.Sant’Elena, nel 326, lo avrebbe ritrovato e fatto inserire in un diadema per il figlio, l’imperatore Costantino il Grande. La corona sarebbe poi passata nelle mani di papa Gregorio Magno, che ne avrebbe fatto dono alla Regina Teodolinda.La Corona è poi anche una straordinaria realizzazione di oreficeria bizantina: è composta da sei segmenti aurei, uniti a cerniera e ribattuti sul cerchietto di ferro, ciascuno dei quali è decorato da tre gemme sovrapposte, un rettangolo smaltato con una grossa pietra al centro e rosette d’oro disposte a croce. La Corona ha, infine, un importantissimo valore storico: divenne il simbolo stesso del Regno d’Italia e fu utilizzata per incoronare Carlo V d’Asburgo, Napoleone e Ferdinando I; ancor prima, nel X secolo, sarebbe stata utilizzata per l’incoronazione di Berengario I. Oggi è custodita in Duomo, nella Cappella di Teodolinda, ed è visitabile in orari e giorni prestabiliti.

La cappella di Teodolinda. La cappella della regina Teodolinda si trova a sinistra dell’abside centrale. Fu affrescata dagli Zavattari, una famiglia di pittori attivi in Lombardia nella prima metà del ‘400. Chiusa da una cancellata, la cappella custodisce la Corona Ferrea ed il sarcofago dove nel 1308 vennero traslate le spoglie della regina Teodolinda. Gli affreschi narrano episodi tratti dalla “Historia Langobardorum” di Paolo Diacono e da una leggenda tardo-medioevale narrata da Morigia, cronista monzese del ‘300: vi si narra che, dopo le nozze con Agilulfo, Teodolinda fece voto di costruire una basilica in onore di San Giovanni, in un luogo (appunto il borgo di Monza) che le sarebbe stato indicato dallo Spirito Santo sotto forma di colomba. La singolarità di questi affreschi è quella di aver rappresentato scene della storia longobarda negli sfarzosi costumi dell’epoca dei Visconti e di aver inserito in un luogo sacro scene di vita profana. Il probabile committente fu Filippo Maria Visconti. L’inizio dei lavori è da fissarsi al 1444, data riportata dall’iscrizione sulla parete di destra, mentre il loro completamento dovette avvenire entro il 1446. Il ciclo costituisce una delle più significative testimonianze della pittura tardogotica in Lombardia.

Il Museo e Tesoro del Duomo. Il Museo e Tesoro del Duomo di Monza custodisce cimeli e reliquie che ci riportano ai primi secoli del Cristianesimo e all’epoca longobarda e ci accompagna sino ai nostri giorni senza soluzione di continuità. Si va da una serie di ampolline palestinesi e romane, databili alla seconda metà del VI secolo, agli splendidi preziosi del periodo tardo romanico, VI-VII secolo, come la Croce detta di Agilulfo, la Corona votiva e la legatura dell’Evangeliario di Teodolinda; dai capolavori di epoca carolingia, (IX secolo), come il Reliquiario del dente di S. Giovanni e la Croce reliquiario di Berengario I, alle opere artistiche di scuola lombarda del XV secolo; dai lasciti dell’età viscontea, come il Calice di Giangaleazzo Visconti e lo Stocco di Estorre Visconti, agli arazzi cinquecenteschi, fino alle tele del XVII-XVIII secolo. Il Museo e Tesoro del Duomo costituisce quindi un’eccezionale raccolta di opere d’arte e ha reso Monza e la sua Basilica famose nei secoli. Purtroppo, quello che resta oggi è solo parte di un patrimonio importantissimo: le perdite più ingenti si ebbero in epoca napoleonica, quando, per provvedere alle spese di guerra, nel 1796, la Basilica dovette consegnare due terzi dell’oro e metà dell’argento che possedeva, perché fossero fusi.

La Basilica di Aquileia – Michela Vallese

Buongiorno a tutti, Natale è sempre più vicino ed oggi vi porterò con me a visitare La Basilica di Aquileia, monumento maggiore e più significativo di questa città dai mille risvolti storici.

L’ho visitata l’ultima volta lo scorso mese, e devo ammettere che è un incanto ogni volta! Dedicata a Santa Maria Assunta e ai santi Ermacora e Fortunato, la prima costruzione risale intorno al 313 d.C. quando, secondo l’interpretazione tradizionale, Costantino e Licinio firmano a Milano (Mediolanum) un editto per concedere a tutti i cittadini, quindi anche ai cristiani, la libertà di venerare le proprie divinità.

La comunità cristiana ebbe quindi la possibilità di edificare liberamente il primo edificio di culto. Nei secoli successivi, dopo la distruzione di questa prima chiesa, sede vescovile, gli aquileiesi la ricostruirono per ben quattro volte, sovrapponendo le nuove costruzioni ai resti delle precedenti. L’attuale basilica venne edificata nell’XI secolo e rimaneggiata nel XIII. Sorge a lato della via Sacra, affacciando su piazza del Capitolo, assieme al battistero e al campanile.

La Basilica si presenta, nel complesso, in forme romanico-gotiche. Il pavimento è costituito da un meraviglioso mosaico policromo del secolo IV, portato alla luce dagli archeologi negli anni 1909-12;l’elegante soffitto ligneo a carena di nave risale invece al secolo XV; tra il pavimento e il soffitto, quindi, sono racchiusi oltre mille anni di vicende storico-artistiche. Il pavimento è il più esteso mosaico paleocristiano del mondo occidentale (ben 760 m²). Le raffigurazioni principali della navata centrale possono essere suddivise in quattro campate, partendo dall’entrata.

Nella prima compaiono vari ritratti di donatori, nodi di Salomone (di cui ho riportato una foto, simbolo di unione fra l’uomo e la sfera del divino) ed animali tra cui il più conosciuto è un pannello che raffigura la lotta tra un Gallo ed una Tartaruga simboli della vittoria del Cristianesimo (il Gallo, annunciatore della luce del nuovo giorno, quindi di Cristo Risorto, nuova “Luce del mondo”) sul paganesimo (la Tartaruga, vista come simbolo del Male a cagione del fatto che il suo nome in greco significa “Abitatore delle tenebre”)Nella seconda campata invece sono di particolare interesse i ritratti sia maschili che femminili, tra i quali a detta di alcuni studiosi si troverebbero anche i ritratti di familiari di Costantino e l’immagine dell’Imperatore stesso.

Nella terza campata, dove a suo tempo si trovava l’altare, troviamo una delle immagini più conosciute: nel riquadro centrale si vede la scena allegorica della Vittoria Alata con corona e palma, simbolo dell’ascesa del Cristianesimo nel nostro territorio.Infine l’ultima campata è costituita da un unico grande mosaico, che rappresenta un mare pescoso, con la storia di Giona, profeta ebraico, inviato da Dio per predicare nella città di Ninive (su questo mosaico si potrebbe fare una presentazione a parte, tanti sono i meravigliosi particolari delle scene rappresentate! La mia impressione è stata quella di trovarmi difronte ad un enorme “fumetto” a colori ☺️).Per quanto riguarda la navata di destra, il mosaico è stato parzialmente rovinato dalla messa in opera delle colonne; ciò avvenne alla fine del IV secolo. Le fondazioni delle colonne sono in vista perché agli inizi del ‘900 fu tolto il pavimento medievale a piastrelle bianche e rosse, risalente all’epoca del patriarca Popone o Poppo (1031), per mettere in luce il prezioso mosaico paleocristiano.

Il mosaico ricopriva l’Aula Sud di Teodoro, uno dei tre ambienti principali che costituivano la sede vescovile eretta al tempo dell’imperatore Costantino. Teodoro infatti, ricordato nell’epigrafe inserita nel pavimento della Basilica, acquista la zona urbana dove sorgevano alcuni magazzini, li demolì ed innalzò un complesso ad U: due aule rettangolari parallele (Aula Sud e Aula Nord), collegate fra loro da una trasversale, pure rettangolare. Tra le due parallele, a est della trasversale, trovarono posto il battistero, ambienti di servizio e l’ingresso a tutto il complesso. Nella Cripta degli Scavi, troviamo invece i resti dei mosaici dell’Aula Nord. (Secondo alcuni studiosi, l’Aula Sud serviva da catecumeneo, mentre l’Aula Nord era riservata alla celebrazione della Messa.)Qui sono visibili le fondamenta del campanile popponiano che poggiano sui mosaici teodoriani dell’originaria Aula Nord.

I mosaici di questo settore risultano fatti con materiali meno pregiati ed eseguiti da mano meno esperta, fatta eccezione per una zona, situata a nord delle fondamenta del campanile, che presenta mosaici più antichi dai colori brillanti, di altissima scuola.Questi mosaici non sono inquadrabili in un contesto storico/culturale latino o latino/cristiano. Dal loro esame, si ricavano indizi e ipotesi di lavoro che spostano le indagini verso gli ambienti culturali gnostici, presenti durante i primi secoli dell’era cristiana in tutto l’impero romano e particolarmente ad Alessandria d’Egitto.I simboli nascosti tra le raffigurazioni sono molteplici e di difficile interpretazione.

Un esempio che mi è rimasto impresso è quello dell’Albero dell’Aragosta che rappresenta in realtà la costellazione del gambero, ovvero il Cancro, che comprende quel settore del cielo in cui al Solstizio d’estate il Sole sembra fermarsi, per tornare indietro, appunto come fa il gambero.Se i mosaici sono l’attrattiva principale della Basilica, non sono da meno la Cripta degli affreschi e l’Altare Maggiore.

Dopo aver ammirato la maestosità del corpo principale, infatti, motivo di stupore si racchiude nella cripta dai colori vividi e un’architettura elegante e lineare. La cripta, che si trova proprio sotto l’altare risale all’epoca del patriarca Massenzio (IX secolo) e venne realizzata per custodire le reliquie dei martiri aquileiesi Ermagora e Fortunato. Sulle pareti si possono ammirare scene di affreschi risalenti al XII secolo che illustrano la leggenda dell’evangelista Marco. L’altare maggiore (1498), invece, è opera di Antonio e Sebastiano da Osteno; dietro è posta la cattedra di Poppone. Gli affreschi dell’abside risalgono alla dedicazione di Poppone alla Madonna (1031). Mi rendo conto che nonostante io ami la sintesi, le cose da menzionare e su cui scrivere sono tantissime, d’altronde il vescovado di Aquileia ha ricoperto per anni un ruolo fondamentale nella storia del suo territorio. Vi lascio comunque con un’altra piccola “chicca” che ho scoperto durante la mia ultima visita: all’interno della Basilica si trova uno splendido busto di marmo denominato Cristo della trincea (di cui lascio una foto) di straordinaria forza espressiva, scolpito – si dice proprio in trincea – da un soldato artista, Edmondo Furlan, durante la I guerra mondiale.

Spero abbiate gradito questo lungo viaggio nella storia di Aquileia, se passate da queste parti, vi consiglio di fermarvi a visitare gli splendori di questa città, dal vivo è ancora più bella!!

Palazzo Nicolosio Lomellino di Genova – Maria Marques

Per concludere il calendario dell’Avvento di Tsd, dopo aver percorso l’Italia ed aver ammirato luoghi e monumenti incantevoli e suggestivi, immaginando che siate un poco stanchi e più inclini a un convivio, vi invito a riposarvi in una delle dimore nobili che si affacciano sulla “Via Nuova” l’attuale via Garibaldi a Genova.

Intorno alle metà del ‘500, le grandi e ricche famiglie genovesi, lasciarono i quartieri medievali della città e si fecero costruire splendidi palazzi che si affacciavano su una via realizzata appositamente, rendendola unica e famosa già ai contemporanei per essere un esempio di pianificazione urbanistica. Questi palazzi, incluso quello che vi porterò a visitare, erano inseriti nei “Rolli” cioè nelle liste degli alloggiamenti pubblici destinati a dignitari e notabili in visita ufficiale alla Repubblica, estratti sulla base di un sorteggio.

La storia di palazzo Lomellino, inizia nel 1559 quando Nicolosio , esponente di una famiglia arricchitasi con la pesca del corallo nell’isola tunisina di Tabarca, nonché imparentato con altre ricche famiglie genovesi, tra cui i Centurione e i Doria, affidò a Giovan battista Castello detto il Bergamasco e a Bernardino Cantone, la costruzione della sua dimora. La dimora passò poi alla famiglia Centurione, poi ai Pallavicini, ai Raggi per arrivare a fine 800 in mano ai Podestà.

Il palazzo si distingue dagli altri che lo fiancheggiano per la facciata decorata con stucchi ad opera di Marcello Sparzo: erme femminili alate, nastri drappi, trofei d’armi, ghirlande, mascheroni accompagnano lo sguardo dei visitatori partendo dal pian terreno sino ad arrivare all’ultimo piano. Gli stucchi si ripetono nell’atrio che conduce a un androne su cui si apre uno splendido ninfeo risalente alla ristrutturazione settecentesca, preludio al giardino sviluppato su due livelli più in alto. Il primo piano nobile è decorato con affreschi realizzati da nel 1623 da Bernardo Strozzi, che avrebbero dovuto coprire lo scalone, la loggia , due sale e tre recamerini.

Nel 1625 in un documento l’artista lamentava al Senato di Genova la fatica dell’opera e il pagamento non adeguato. Il nobile Centurione rispose alle lamentele dello Strozzi, i cui onorari erano per l’epoca, molto elevati, di non aver rispettato il contratto. Ne nacque una vertenza legale, ancora documentata, per cui gli affreschi dello Strozzi si limitarono a sole tre sale, di cui due furono coperte già per ordine del committente. Nel Settecento per opera della famiglia Pallavicini furono poi ristrutturate alcune zone del palazzo che portarono a una controsoffittatura occultando gli affreschi dello Strozzi che rimasero in tal modo protetti. Durante il restauro dell’ edificio durante il 2004, l’opera dello Strozzi riemerse in tutto il suo splendore.

Al secondo piano nobile, il tema degli affreschi è a carattere mitologico ad opera di Antonio Boni, Lorenzo De Ferrari e risale al periodo in cui il palazzo fu dimora della famiglia Pallavicini. Nel salone del secondo piano, sono conservate cinque tele con Storie di Diana eseguite da Marcantonio Franceschini, pittore bolognese, che decorò il salone del Maggior Consiglio di palazzo Ducale. Le sale che conducono verso il giardino sono un susseguirsi di dipinti, tra cui uno di Luca Giordano e altri stucchi di Marcello Sparzo restaurati perché colpiti dai bombardamenti della II guerra mondiale sino alle due gallerie che conducono il visitatore verso il primo livello dei giardini ricchi di decorazioni in stile settecentesco che su diversi livelli risalgono sulla collina di Castelletto. Nonostante che nel corso dei secoli l’architettura che circonda la zona si sia modificata, questo spazio verde è rimasto abbastanza integro, ricco di fontane, di grotte, di pergolati e aiuole fiorite ,includendo anche un minareto che domina il giardino e da cui la vista spazia sulla città e sul golfo, memore di un’epoca in Genova dominava i mari.

Un angolo verde, in cui ci si dimentica di essere al centro della città, perché Genova è cosi, Genova è nascosta e per scoprirla si deve entrare negli androni, nei cortili e lì, circondati dalla quiete, separati dal rumore del traffico, la bellezza e l’arte astraggono dal tempo.

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