Viaggio nella storia

L’ultima caccia – un racconto di Michele Rocchetta

In occasione della settimana storica dedicata alla preistoria sul nostro gruppo Facebook “Thriller Storici e Dintorni“, l’amico Michele Rocchetta ci regala questo suo racconto. Ma al suo interno c’è un errore storico: riuscite a trovarlo?

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“L’ultima caccia” di Michele Rocchetta

Il sole colorava di rosso le cime delle montagne, mentre la neve rifletteva il tramonto in mille tonalità cangianti. Le giornate si stavano allungando e preannunciavano l’arrivo della primavera. Ai larici non erano ancora spuntate gemme, ma Pelorosso sapeva che la stagione tiepida sarebbe arrivata a breve.

Il vigoroso capo clan della Rocciaguzza osservava il paesaggio della vallata che si stingeva nell’imbrunire. Sistemò la pesante pelliccia di lince, simbolo del suo rango, nel tentativo di ripararsi dall’aria gelida che proveniva dai ghiacciai. Tra qualche tempo le mandrie di cervi, stambecchi e bisonti si sarebbero mosse dalla pianura per spostarsi in quota, seguendo il timido disgelo e le erbe appena spuntate.

Quello sarebbe stato il momento migliore per una caccia proficua.

L’inverno era stato duro e l’arrivo prematuro delle forti nevicate aveva compromesso in parte la caccia autunnale. L’impossibilità di fare scorta di carni aveva duramente provato la comunità con la perdita del vecchio Lupotriste e la morte di Ariacalda e Nasorotto. I due cacciatori si erano allontanati in pieno inverno per tentare di procurare un po’ di pesce, ma una bufera di neve li aveva isolati per diversi giorni. Li avevano ritrovati abbracciati, sotto una sporgenza rocciosa, duri come il ghiaccio che li aveva uccisi. Li avevano lasciati lì, coprendone i corpi con delle grosse pietre di fiume.

Il sostentamento del clan era ricaduto tutto sulle spalle di Pelorosso, di Occhiodicielo e di Pelledambra. Erano rimasti solo tre cacciatori. Troppe donne e troppi bambini nello stesso clan, con solo tre cacciatori.

Gambacorta, la vecchia sciamana, avrebbe voluto sacrificare il piccolo Testadorso alle prime nevicate per diminuire le bocche da sfamare durante la stagione fredda e, quando aveva avanzato la proposta, sembrava avere ragione. Ma Pelorosso si era opposto con tutta la sua autorità.

I segnali dell’arrivo della primavera lo confortavano nella sua decisione. Il clan stava superando anche quell’inverno. Pelorosso scosse la testa e rientrò nella caverna.

Gambacorta, sollevò lo sguardo per qualche secondo, poi tornò a occuparsi delle sue pietruzze colorate. Le raccoglieva in un tubo ricavato dal femore di una renna, scuoteva il contenitore, e le lasciava ricadere, rimanendo a lungo a osservarne la disposizione sul terreno polveroso della caverna. Era tutto l’inverno che passava così il suo tempo. Era seduta su una sorta di terrazzo naturale, posto a un paio di metri di altezza. Più lanciava le pietruzze, più il suo umore peggiorava.

Per fortuna l’inverno stava per finire.

Pelorosso si addentrò nella grotta, finché non raggiunse la grande camera comune dove tutto il clan si riuniva per sbrigare le attività collettive; praticamente per gran parte della giornata. Gli si fece incontro, correndo, Testadorso. Gli abbracciò la coscia possente e Pelorosso lo sollevò in alto provocandone una sonora risata.

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Nasolungo, la sua compagna, non era riuscita ancora a dargli un figlio e si era molto legata al piccolo orfano; era stato naturale anche per Pelorosso affezionarsi. A lui piacevano i bambini e ormai Lucedinotte, il suo unico figlio, nato da una compagna morta da tempo, non lo era più, pur non essendo ancora abbastanza grande da diventare un cacciatore.

Il capo clan rimise a terra il bambino che corse da Nasolungo. La donna lo fece sedere davanti a sé e prese a frugargli tra i capelli, scovando, di quando in quando dei parassiti che afferrava con la punta delle dita e uccideva con un morso.

Il capo dei cacciatori si guardò attorno alla ricerca del suo vecchio amico, Occhiodicielo. Lo vide accoccolato contro la parete delle pitture, intento a disegnare. Lo raggiunse e gli si sedette accanto.

Occhiodicielo era un po’ più vecchio di Pelorosso ma, meno dotato fisicamente dell’amico, non ne aveva mai messo in dubbio l’autorità.

– Disegni?

Occhiodicielo sembrò risvegliarsi da un sogno, sobbalzò e sorrise, – Sì. Questo sono io.

Indicò una figurina stilizzata, armata di una robusta lancia, che colpiva al balzo una grassa renna.

– Sei sempre stato il migliore di noi a disegnare.

– Ognuno ha le sue qualità.

Pelorosso assentì, osservando le innumerevoli pitture che ricoprivano quella parete della grotta.

– è il momento?

– Sì. Chiama Pelledambra e digli di prepararsi. Vi aspetterò fuori dalla grotta.

Occhiodicielo si pulì le mani sulla giubba di pelo e si alzò.

Pelorosso fissò ancora per un attimo i grandi animali raffigurati su ogni centimetro di roccia, poi raggiunse la sua compagna. Nasolungo allontanò Testadorso con un’affettuosa pacca sul sedere e si fece incontro al proprio uomo.

– Andrete stanotte?

– Sì. Adesso.

Lei gli porse le due lance dalla punta di selce e lo accarezzò su una guancia. Lui si chinò leggermente e strofinò il suo naso contro quello di lei, poi le appoggiò la mano ruvida sul ventre.

– Gambacorta ha detto che io non valgo nulla come madre, ma mi sento strana…

– La vecchia non ha sempre ragione – confermò Pelorosso sorridendo, poi si girò e si avviò verso l’uscita.

Quando passò davanti alla vecchia sciamana questa sollevò lo sguardo.

– Questa non è una buona notte – sentenziò lei.

– Buona o non buona, bisogna uscire a cacciare. Qualcosa dovremmo pure mangiare.

– Potremmo sacrificare Testadorso, e mangiare lui – tornò alla carica Gambacorta.

– Non se ne parla nemmeno. Il bambino non si tocca.

– I nostri padri, e i padri dei nostri padri lo facevano.

– Noi siamo i figli, e non mangiamo i nostri figli – chiuse il discorso Pelorosso.

La vecchia riprese ad agitare le sue pietruzze, cantilenando e scuotendo il capo.

Finalmente arrivarono Pelledambra e Occhiodicielo.

– Andiamo – disse il capo dei cacciatori, e i tre si allontanarono dalla caverna, dirigendosi verso valle.

Camminavano in silenzio sotto una volta di stelle dalla luce limpidissima. La luna avrebbe tardato ancora un po’ prima di sorgere a illuminare il paesaggio. Sarebbe stato bello poter trasferire il clan più a valle, per poter godere di un clima più favorevole. Ma non era possibile. I territori a valle erano dei nuovi clan. Da diverse stagioni, da prima che Pelorosso diventasse capo dei cacciatori, tutta la valle era stata occupata dai nuovi arrivati.

Quegli uomini glabri, adornati di collane di pietre strane. Come le chiamavano? Conchiglie. Erano numerosi e poco socievoli. Così il clan di Rocciaguzza si era trasferito a monte, sotto il ghiacciaio, dove scarseggiava la selvaggina. Se non fosse stato per il pesce che riuscivano a catturare nel torrente, se la sarebbero vista brutta già da tempo.

Pelorosso meditava su queste cose ed era sempre più convinto che forse era venuto il momento di spostarsi. Con la bella stagione avrebbe chiesto ai clan della pianura il permesso di attraversare il loro territorio per portare il suo gruppo verso sud. Voleva arrivare al mare. Aveva sentito parlare del mare, ma non lo aveva mai visto. Lì stavano le conchiglie e tanto pesce.

Occorreva spostarsi, anche contro la volontà di Gambacorta. Chi voleva restare alla Rocciaguzza poteva farlo, ma lui non intendeva far morire di stenti Nasolungo e Testadorso; a maggior ragione, se la sua compagna era incinta.

I tre cacciatori costeggiarono il Piccolo Lago e si fecero più guardinghi; sapevano di essere usciti dal proprio territorio e di avere invaso quello del clan della vallata. Ma la mandria dei cervi era lì e loro avevano bisogno di cacciare.

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La luna spuntò da dietro le vette più alte e illuminò di argento e azzurro tutto il paesaggio, facendo risaltare i ghiacciai alle loro spalle. Entrarono nel folto della foresta di conifere, dove l’odore della resina era più forte e il vento concedeva un po’ di tregua. Oltre quella massa di alberi c’era la grande radura dove stazionava il branco all’approssimarsi della stagione tiepida.

Pelorosso pregustava già il sapore della carne del cervo appena ucciso. Sperava di cancellare il gusto rancido delle tante marmotte scovate addormentate nelle tane invernali.

Si ritrovarono in breve ai bordi del bosco e videro il branco. Sembrava molto numeroso. L’inverno nella pianura non era stato così impietoso come su, verso i ghiacciai.

I tre cacciatori si cosparsero di muschio e melma. Occhiodicielo prese un grosso fungo carnoso e lo schiacciò facendone uscire un liquido denso che tutti e tre si spalmarono addosso. Trovarono anche degli escrementi di cervo che strofinarono sulla pelle, smettendo soltanto quando ebbero valutato di aver mitigato il più possibile il proprio odore.

Senza proferir parola Occhiodicielo si staccò dagli altri due cacciatori e si incamminò verso il branco, facendo un giro molto ampio.

Pelorosso e Pelledambra presero la direzione opposta, come a voler chiudere gli animali in una larga morsa. Occhiodicielo avrebbe distratto il grande cervo dominante, portandosi sopravento, mentre i due compagni sottovento avrebbero selezionato un individuo adatto alla cattura.

In tre non avevano la minima possibilità di sopraffare un adulto sano, né maschio, né femmina.

Il capo cacciatore, con il suo giovane compagno, si portò alle spalle del branco e rimase a osservare il comportamento del grande cervo dominante e la disposizione delle femmine. Notò che molte erano gravide, segno che il capo del branco era in ottima salute. Individuò una giovane femmina che sembrava claudicare da una zampa posteriore e la indicò a Pelledambra.

Il giovane fece un cenno d’assenso. Quella era la preda.

Gli animali si muovevano pigri nell’oscurità. Il maschio dominante si aggirava lungo il perimetro del branco, muovendo il grande palco, ormai pronto per i combattimenti primaverili. Sembrava inquieto. Forse aveva avuto sentore della presenza dei cacciatori. Improvvisamente prese a trotterellare, scrollando le corna maestose in gesto di sfida. Aveva individuato Occhiodicielo.

Il branco si animò e tutte le bestie si misero in piedi, in preda a una formicolante agitazione. Pelorosso e Pelledambra si allontanarono tra loro e cominciarono ad avanzare verso la preda, tenendosi bassi, tra le alte erbe coriacee. Videro il capo del branco partire alla carica in una direzione, mentre tutte le femmine e gli individui giovani si spostavano, istintivamente nell’altra. Tra le braccia dei due cacciatori in agguato.

La tecnica funzionava sempre.

In pochi secondi la cerbiatta zoppa si trovò a qualche metro da Pelorosso che balzò in avanti puntando la sua lancia. L’animale, terrorizzato, provò a scartare indietro ma si ritrovò davanti alla selce di Pelledambra. I due cacciatori affondarono il colpo simultaneamente, piantando in profondità le lance. Pelledambra lasciò la sua arma e si gettò sulla preda afferrandola per il collo, cercando di gettarla a terra, mentre Pelorosso, evitando il furioso scalciare dell’animale, infisse il suo coltello d’osso nella gola con tutta la forza che possedeva; poi entrambi si gettarono di peso sulla bestia, per tenerla a terra. Pelorosso non voleva colpirla ancora per non rovinarne ulteriormente la pelle.

Tutto attorno a loro il branco sembrava impazzito. Gli animali si muovevano frenetici in una danza caotica e terrorizzata. I due cacciatori restarono bassi, accucciati sulla preda agonizzante. Poi il branco si spostò lontano in una corsa pesante e disordinata. In mezzo a quella marea di teste ondeggianti spiccava il palco imponente del capo branco.

Qualche minuto e fu il silenzio; il branco era solo un lontano, sordo tuonare, che tendeva a svanire.

Pelorosso e Pelledambra cominciarono a scuoiare la preda con gesti sicuri e rapidi, sollevando lo sguardo ogni tanto, in attesa che Occhiodicielo li raggiungesse.

Pelorosso estrasse il cuore dell’animale e lo fece in tre pezzi. Uno lo mangiò, il secondo lo offrì a Pelledambra e il terzo lo mise da parte per l’amico. Sentiva il calore della cerbiatta diffondersi dalla sua bocca e scendere nello stomaco, mentre strappava il soffice muscolo cardiaco, e lo invase un senso di esaltazione.

Avevano ucciso un cervo.

Per qualche tempo il clan avrebbe avuto modo di sopravvivere. Poi ci sarebbe stata la grande caccia primaverile. Si sentiva ottimista. Pelorosso udì un rumore alle sue spalle e si voltò.

Occhiodicielo era davanti a lui e sorrideva, – é stata una buona caccia.

Il capo dei cacciatori gli porse la sua parte di cuore, con un sorriso che scomparve immediatamente.

Occhiodicielo si appoggiava alla sua lancia e faticava a respirare.

– Cosa è successo?

– Il grosso maschio è stato abile, e veloce.

Occhiodicielo si accasciò e Pelorosso corse a inginocchiarsi vicino a lui, imitato da Pelledambra.

– Pulisci il cervo! – Gli intimò il capo.

Il giovane tornò sui suoi passi e si rimise a separare la carne dalle ossa, gettando ogni tanto delle occhiate allarmate verso i due uomini.

– Non mi sono spostato in tempo e il maschio mi ha fatto volare – sibilò Occhiodicielo.

– Riposa. Non ti affaticare.

Mentre Pelorosso gli faceva queste raccomandazioni Occhiodicielo venne colto da un attacco di tosse, un copioso rivolo di sangue misto ad aria gli uscì dalla bocca e si abbandonò al suolo, esanime. Il capo clan appoggiò l’orecchio al torace dell’amico, ma non ne sentì battere il cuore.

Pelorosso venne colto da un moto di sconforto. Il secondo cacciatore del clan, il suo più vecchio amico, era morto. Sentì un groppo allo stomaco e la voglia di gridare, ma si trattenne per non spaventare il giovane Pelledambra. Il possente cacciatore fulvo si alzò in piedi e tornò a lavorare sul cervo.

– Si è addormentato? – Domandò Pelledambra.

– Sì, del lungo sonno che attende tutti.

Il giovane interruppe per un attimo la sua attività.

– Fai in fretta. Dobbiamo sbrigarci a tornare nel nostro territorio. Poi, tra poco, arriveranno i lupi a terminare il lavoro.

– E Occhiodicielo?

– Lo porteremo con noi.

Pelledambra non contraddisse il capo. Non ne aveva l’autorità; anche se sapeva che il buonsenso di cacciatore avrebbe consigliato di lasciare il cadavere lì.

– Non possiamo lasciarlo qui. – Disse Pelorosso, quasi avesse letto nel pensiero il giovane. – Se lo trovano i cacciatori del clan della valle verranno a Rocciaguzza a chiedere cosa ci facevamo nel loro territorio. Dobbiamo portarlo alla grotta.

Il capo appoggiò una mano sulla spalla del ragazzo, – Da adesso tu sei il secondo cacciatore del clan; devi imparare a ragionare anche per il bene del gruppo, non solo per avere successo nella caccia.

Avvolsero la maggiore quantità di carne possibile in due fagotti di pelle e li appesero alle lance, che Pelledambra si mise di traverso sulle spalle.

Pelorosso caricò il cadavere di Occhiodicielo sulla schiena e raccolse un terzo fagotto, quindi fece cenno al giovane di precederlo verso il rifugio di Rocciaguzza. Il percorso verso la caverna fu straziante. Più volte Pelledambra si dovette fermare per attendere il suo capo che era rimasto indietro gravato dal pesante fardello.

Finalmente, dopo un penoso cammino che pareva eterno, rientrarono nel loro territorio e, solo allora, Pelorosso chiamò il compagno, – Precedimi alla grotta e manda qualcuno che mi venga ad aiutare.

Pelledambra partì con passo rapido e ben presto scomparve alla vista.

Pelorosso appoggiò il corpo dell’amico a terra, tra mille premure e gli si sedette accanto, per prendere fiato.

– Mi hai lasciato in un bel guaio. Sono rimasto l’unico cacciatore esperto del gruppo e la nostra sopravvivenza è in pericolo. Chi glielo dice a Marmotta quello che è successo? Mia sorella non è pronta a questo.

Il capo clan sollevò gli occhi al cielo e fissò la luna che quella notte sembrava enorme, sospirò profondamente, poi pianse. Dopo qualche minuto, ritrovata la calma, si alzò e raccolse le spoglie di Occhiodicielo e l’involto con la carne. Riprese a camminare.

Finalmente sentì delle voci. Erano Pelledambra e Lucedinotte che erano venuti ad aiutarlo.

Il ragazzino prese la carne e partì spedito verso il rifugio, dando solo uno sguardo sgomento al cadavere dell’amico di suo padre.

I due cacciatori fecero una barella con lance e pelli e trasportarono il cadavere alla grotta. Entrarono nella caverna interrompendo le invettive di Gambacorta che stava spiegando come lei avesse presentito la sciagura e avesse detto a Pelorosso che quella non sarebbe stata una buona notte.

Deposero il cadavere vicino al focolare, lasciando spazio alla disperazione di Marmotta. La giovane donna si sedette vicino al corpo del proprio compagno e, con delicatezza, prese a lisciargli i lunghi capelli e a pulirne il volto dal sangue raggrumato.

Pelorosso si avvicinò alla vecchia guaritrice, – Preparalo, voglio seppellirlo entro l’alba.

La vecchia assentì e, allontanata Marmotta, cominciò a cospargere il corpo di Occhiodicielo di ocra rossa. Nasolungo si avvicinò a Pelorosso, cercando di parlargli, ma questi scrollò le spalle e si diresse verso il fondo della caverna, dove cominciò a scavare, rifiutando l’aiuto che gli veniva offerto dagli altri componenti del clan.

I bambini erano silenziosi e stavano vicino alle donne, che parlottavano tra di loro, con piena coscienza di quello che significava per tutti la morte di Occhiodicielo. Solo Gambacorta sembrava estranea a tutto quel trambusto. Dipingeva il corpo del morto con grande cura, emettendo soltanto un suono gutturale, una nenia ossessiva.

Quando fu pronta la fossa, Pelorosso e Pelledambra vi sistemarono il cadavere, poi uno alla volta, i membri del clan deposero vicino al corpo un oggetto utile per la vita ultraterrena. Terminato l’omaggio al defunto, le donne si occuparono di ricoprire la fossa con terra e pietre.

Pelorosso chiamò tutto il clan vicino al focolare. Voleva parlare alla sua gente.

– La morte di Occhiodicielo è un grosso problema per noi tutti e questo lo sapete. Ora vi dirò che cosa ho intenzione di fare; come Pelorosso prima che come capo clan.

Sentiva tutti gli occhi su di sé e la sensazione era sgradevole.

– Quando il sole sorgerà io, Nasolungo, Lucedinotte e Testadorso ce ne andremo. Gli altri sono liberi di fare quello che preferiscono.

Il silenzio provocato da quelle parole venne interrotto da Gambacorta, – E dove andrete?

– Verso sud. Voglio arrivare al mare. Lì il clima è migliore e il cibo abbondante.

– Il mare! Ma sentite! – Esclamò la guaritrice. – Pelorosso, sei un cacciatore esperto, sei un capo clan e credi ancora a queste favole da bambini? Il Mare non esiste! Non può esistere così tanta acqua! Sei uno sciocco!

Pelorosso non era abituato a lasciarsi insultare, ma la sciamana godeva di una sorta di impunità, che però non la salvò dall’occhiata feroce.

– Tu, Gambacorta, e tutti voialtri, – disse comprendendo il gruppo con un gesto della mano, – potete fare come volete. Io non vi obbligo. Se vorrete seguirmi lo farete per vostra scelta e mi dovrete obbedienza. Se vorrete rimanere, padroni di farlo. Ora, io non ho tempo da perdere.

Indicò l’imboccatura della caverna che mostrava una fetta di cielo che si stava leggermente rischiarando.

Si voltò verso Nasolungo, – Prepara le nostre cose e una parte della carne. Noi andiamo.

La donna assentì e, aiutata da Lucedinotte e Testadorso, cominciò a infagottare pellicce e utensili.

Tutti gli altri si misero a discutere nella ricerca di una decisione comune.

Pelorosso si avvicinò alla parete coperta di disegni e si chinò sulla figurina che Occhiodicielo aveva terminato la sera prima. Prese una piccola manciata di ocra rossa e se la mise in bocca. Biascicò a lungo, poi appoggiò la sua mano sul disegno dell’amico e spruzzò con la bocca il bolo sabbioso. Una, due, tre volte. Finché non fu soddisfatto.

Allontanò la mano dalla parete e vide le due figure sovrapposte.

– Amico, addio – sussurrò.

Ricacciò in gola un groppo che sentiva volergli far scoppiare i polmoni e si voltò. Il clan lo aspettava all’uscita.

Pelledambra gli si fece incontro, – Pelorosso, solo Gambacorta ha deciso di rimanere.

– Sono troppo vecchia e sono zoppa per camminare con voi fino… al mare – la vecchia sbottò, sarcastica. – Tanto tornerete. Tra qualche giorno sarete di nuovo qui.

– E’ una tua decisione, vecchia. Noi andiamo – disse il capo clan.

Poi si rivolse a Nasolungo, – Lasciale la sua parte di carne e partiamo.

– Ma, Pelorosso, come faremo senza lei? Chi parlerà agli dei? – chiese la sua compagna.

– Gli dei non si sono preoccupati di noi per tutto l’inverno e ci hanno privati di tre validi cacciatori. E’ venuto il momento di fare conto solo sulle nostre forze.

Il capo cacciatore si mise in cammino, seguito dalla sua gente. Alle sue spalle, dentro la caverna, la vecchia sciamana scuoteva le pietruzze colorate.

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