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Il boia: il difficile mestiere di ammazzare

A cura di Laura Pitzalis

Ancu ti curra su buginu“, che ti perseguiti il boia, è un detto sardo per augurare qualcosa di negativo a una persona, un “frastimu”, imprecazione, maledizione.

In effetti, il Boia, sparito oggi nella gran parte del mondo occidentale, è una figura che ha lasciato dietro di sé una nomea non certamente rispettabile, che evoca paura, disprezzo, emarginazione.

Le origini della parola “boia” risalirebbero ai tempi dell’antica Grecia: ad Atene l’incaricato dei sacrifici era chiamato boutypos, “l’uccisore di buoi”. In seguito con il termine greco “boietai” s’indicavano le strisce di cuoio di bue con cui erano fatti i lacci e le fruste usate per le torture. In epoca romana questo termine indicò prima il collare con cui erano tenuti fermi i prigionieri, poi le catene e infine il carnefice stesso.

In quest’articolo vorrei concentrare l’attenzione sulla figura del boia in Europa a partire dal medioevo delle monarchie nazionali, perché è proprio in quest’epoca che se ne traccia la figura assumendo quelle caratteristiche che la tradizione popolare ci ha tramandato.

Il boia diventava tale per nomina del re o del capo della comunità e, una volta conferita la carica, questa era fino alla morte e non poteva essere abbandonata. Inoltre passava di padre in figlio e nel caso non ne avesse, al parente maschio più vicino. Era considerato persona indegna, un “reietto” per eccellenza, e, quindi, era molto improbabile che potesse avere legami al di fuori della propria famiglia.

Gli era difficile trovare moglie, nessuna donna era disposta a condividerne l’emarginazione, sebbene possedesse consistenti ricchezze derivanti dalla sua attività: guadagnava all’anno il triplo di un tessitore o di un maestro, il doppio di un panettiere e la stessa cifra di un professore universitario! Per questo i matrimoni avvenivano fra “casate” di boia e molte famiglie avevano legami di parentela fra loro. Allo stesso modo i suoi figli erano ghettizzati e allontanati dalla comunità fin da piccoli.

Tradizionalmente il boia era di sesso maschile. In Francia però durante il Medioevo, le punizioni corporali per le donne, come la fustigazione, erano eseguite dalla bourrelle, donna boia, che di solito era la moglie del boia. La bourrelle non era autorizzata a eseguire le condanne a morte, ma poteva fare da aiutante.

Tra i pochi casi di esecuzioni capitali in cui il carnefice non era un uomo, possiamo ricordare un’impiccagione avvenuta nel 1731 nello Stato Pontificio, in cui la moglie del boia eseguì la sentenza sostituendo il marito indisposto.

Era sottoposto a delle regole ferree. La sua abitazione doveva stare sempre al di fuori delle mura cittadine. In alcuni paesi doveva essere riconoscibile, come per esempio in Spagna che era completamente dipinta di rosso. Non poteva in alcun modo entrare in luoghi pubblici, prendere l’ostia senza i guanti neri o girare per le strade senza segni di riconoscimento (cappello nero a tubo, stemma con mannaia …).

Nonostante il mestiere di boia fosse un lavoro legale e riconosciuto tanto da ricevere onorificenze pubbliche, (come i nobili, avevano lo stemma di famiglia), il suo nome era innominabile all’interno dell’apparato statale, tanto che il suo stipendio passava sotto la voce “spese straordinarie” o “spese speciali”.

Aveva, comunque, anche dei privilegi: al boia poteva passare, dopo l’esecuzione, la proprietà del corpo del condannato. Di solito lo vendeva agli obitori o all’università oppure lo “lavorava” estraendo grassi, liquidi o quant’altro per produrre filtri, medicamenti o veleni. Poteva, anche, esercitare legalmente la funzione di medico, ma solo quando gli ambienti accademici avevano dichiarato incurabile il caso.

Inoltre era esentato, insieme ai suoi figli, dal servizio militare.

I boia più famosi

Quando era ancora in vigore la legge che, in nome della giustizia degli uomini, armava la mano del carnefice, le esecuzioni capitali avvenivano nelle piazze, alla presenza di un pubblico che accorreva rumoroso per assistere al tragico spettacolo, proprio come se partecipasse a una festa popolare. Diventarono vere e proprie celebrazioni collettive dotate di una prorompente scenografia destinate a mostrare a tutti come lo Stato punisse chi compiva gravi delitti e come riuscisse a tutelare l’ordine costituito. Adulti e bambini, popolani e contadini, ladri e prostitute condividevano lo spettacolo di morte che si svolgeva nelle piazze principali di paesi e città, in tutta Europa. Naturalmente la Star di questi spettacoli era lui, il Boia, temuto e rispettato nella stessa misura dagli spettatori che ne valutavano l’operato scatenando l’“ira popolare” se questi non era lesto nel suo compito, prolungandolo più del dovuto, o se saltava qualche fase del rituale.

Molti di questi sono passati alla storia, ma qui ne vorrei ricordare due, italiani, famosi non solo per la loro lunga attività e per il notevole numero di condanne eseguite, ma per la loro vita: triste quella di Pietro Pantoni, operante nell’ex Regno Sardo; leggendaria quella di Giovan Battista Bugatti, più noto come Mastro Titta, il carnefice dei papi.

Pietro Pantoni fu il più famoso, il più triste nonché l’ultimo carnefice di Torino. Veniva da una famiglia di boia: il padre Antonio era stato esecutore per lo Stato Pontificio, il fratello Giuseppe era boia a Parma. Nel 1831 Pantoni riceve da Urbano Rattazzi la patente di Ministro di Giustizia torinese. Rimarrà in attività per più di trent’anni, giustiziando 127 persone, fino al 13 aprile 1864, anno in cui si toglierà il celebre e sinistro mantello rosso: la forca avrebbe da lì in avanti lasciato il passo alla fucilazione.

A causa del suo mestiere era ovviamente denigrato da tutti. Si racconta che la moglie non uscisse mai da casa perchè soffriva particolarmente questa situazione, al punto da avere l’abitazione più pulita della città. Persino in chiesa Pantoni aveva un banco in disparte e gli era stato riservato un loculo sotto il campanile, in modo da continuare questo distacco anche una volta defunto.

Anche quando veniva pagato per le esecuzioni si cercava di non avere contatto con lui, in nessun modo. Il responsabile, firmava il foglio di pagamento indossando i guanti, dopodiché lo buttava per terra, dove un addetto lo prendeva con le pinze e lo gettava al boia che aspettava nella tromba delle scale o sotto la finestra. Qualsiasi mezzo era lecito per non avere a che fare con lui.

Altri raccolsero il testimone di Pietro a Torino, come Gaspare Savassa e Giorgio Porro, ma nessuno, nonostante il numero di vittime simile, ebbe la triste celebrità di Pantoni. Un uomo che aveva accettato di rinunciare a una vita normale per sfamare la sua famiglia e che passò ingiustamente alla storia alla pari dei grandi criminali piemontesi della sua epoca.

Giovanni Battista Bugatti più noto come Mastro Titta fu con certezza, il boia più famoso della storia, ancora oggi una figura centrale nelle leggende di Roma, un personaggio talmente presente nell’immaginario da ispirare persino una filastrocca per bambini:

Sega sega Mastro Titta,’na pagnotta e ‘na sarciccia, una a me, una a te, una a mammeta che ‘so tre!”

Anche se ufficialmente il suo mestiere era pittore di ombrelli, Mastro Titta ricopriva il ruolo di boia dello Stato Pontificio. Era il “Maestro della giustizia” da cui deriva il nomignolo Mastro accompagnato da Titta, diminutivo del suo nome. Una vita intera dedicata alla professione di boia, dai sui diciasette anni sotto il pontificato di Pio VI fino agli ottantasei quando sul soglio pontificio sedeva Pio IX: sessantotto anni di condanne. Scure, ghigliottina, cappio, mazzuolo, coltelli, erano i ferri del mestiere di Mastro Titta. Prima di ogni esecuzione Mastro Titta si confessava e si comunicava, poi indossava il mantello rosso.

Sul suo block notes annotava tutte le sue esecuzioni: oggi ne possiamo contare addirittura 514 (più due persone che non furono giustiziate direttamente da lui, una fu fucilata, l’altra impiccata e squartata dal suo aiutante), Nomi, date e luoghi delle esecuzioni, reati contestati, tutto è stato perfettamente riportato da Titta sui suoi appunti.

E proprio sulla base di questa scarna ma importante documentazione, alcuni lustri dopo la sua morte, venne redatto da uno scrittore restato anonimo, (secondo alcune fonti si tratterebbe di Ernesto Mezzabotta, giornalista, nato a Foligno nel 1852 e morto a Roma nel 1901), un romanzo dal titolo “Mastro Titta, il boia di Roma: memorie di un carnefice scritte da lui stesso”.

La sua casa, che gli era stata donata dal Pontefice, si trovava a due passi da Castel  Sant’Angelo, nel Vicolo del Campanile, ma le esecuzioni si realizzavano dall’altro lato del Tevere, in genere a Piazza del Popolo o a Campo de’ Fiori. Il giorno in cui doveva realizzare un’esecuzione si alzava all’alba, si metteva il mantello rosso e attraversava il fiume passando il ponte. La gente vedendolo correva per tutta la città dicendo “Mastro Titta passa il ponte”, e tutti, grandi e piccoli, correvano a vedere il “grande spettacolo”. All’epoca, a Roma, le esecuzioni erano uno dei rituali più partecipati dal popolo, le piazze erano sempre piene. Uno spettacolo che secondo tradizione erano proprio i più piccoli a dover assistere, come ammonimento relativo a quello che sarebbe accaduto loro se non avessero percorso la strada giusta.

Dopo aver svolto il suo lavoro, tornava nel suo quartiere, dall’altro lato del ponte, e da lì non usciva, perché gli era proibito per motivi di sicurezza. Da ciò deriva un famoso proverbio romano, “Boia nun passa Ponte”, che significa che ciascuno deve stare al proprio posto.

Famosi scrittori dell’epoca, come Alexandre Dumas, George Byron e Charles Dickens, assistettero a qualcuna delle sue esecuzioni. Dickens disse al riguardo:

“Nella Settimana Santa del 1845 c’è stata una decapitazione di fronte a San Giovanni Decollato (ironicamente!), della quale quello che mi ha colpito non è stato l’atto né la condotta del boia, ma il comportamento della gente che era accorsa a vederlo: non era turbata e neanche dispiaciuta. Lo vedeva come un atto normale della vita quotidiana”.

Mastro Titta esegue le condanne a morte con grande perizia ma senza trasporto. Nei racconti romani è spesso descritto come un bonaccione, il viso paffuto e sereno, (nel mio immaginario ha le fattezze di Aldo Fabrizi nella commedia musicale “ Rugantino”), sempre pronto, a volte, a offrire ai condannati un’ultima presa di tabacco o un sorso di vino, quasi a volerli rassicurare sulla sua professionalità.

FONTI

https://www.somewhere.it//curiosita/storie/alcune-curiosita-sul-boia-figura-importante-della-storia-di-torino/#:~:text=I%20boia%2C%20personaggi%20importanti%20che,tramandata%20di%20padre%20in%20figlio.

https://www.poliziapenitenziaria.it/pietro-pantoni-il-carnefice-del-regno-di-sardegna/
https://www.umbriajournal.com/arte-e-cultura/il-boia-piu-famoso-della-storia-mastro-titta-esordi-in-umbria-a-soli-17-anni-344283/

https://www.visite-guidate-roma.com/mastro-titta-il-boia-dei-papi-passeggiata-guidata-serale-fantasmi-a-roma/

Il Boia Lavinia Mancini https://www.academia.edu

https://it.aleteia.org/2019/09/10/chi-era-mastro-titta-boia-del-papa/

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