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Storia del Giappone: la cerimonia del tè

Articolo a cura di Eufemia Griffo

«Seduto lontano dal mondo, all’unisono con i ritmi della natura, liberato dai vincoli del mondo materiale e dalle comodità corporali, purificato e sensibile all’essenza sacra di tutto ciò che lo circonda, colui che prepara e beve il tè in contemplazione si avvicina ad uno stadio di sublime serenità.» (Principio di tranquillità del cha no yu)

Il tè è la bevanda più diffusa al mondo, dopo l’acqua ovviamente. È un infuso ricavato dalla foglie della Camelia sinensis, spesso mescolato con spezie o erbe naturali. Attualmente è una pianta che viene coltivata soprattutto in Giappone, Cina e India. È difficile datare con precisione l’origine della cerimonia del tè, ma quel che è certo è che essa deriva dalla tradizione cinese; la Cina è il luogo più remoto e antico dove è possibile datare i primi usi di questa pianta.

Un’antica leggenda narra che il tè fu addirittura scoperto nel 2700 circa a.C. da uno dei tre imperatori della dinastia San Huang. In un giorno d’estate l’imperatore Shen Nong, si recò in visita presso una regione antica e sperduta del suo impero; per dissetarsi mise dell’acqua a bollire e mentre la preparava, delle foglie secche caddero da un cespuglio nel bollitore dando vita ad una nuova infusione. Quando l’imperatore assaggiò il preparato, lo trovò dissetante, rinfrescante e delizioso. Quel momento dovrebbe mitologicamente segnare la scoperta di questa nuova bevanda. Mitologia a parte, il tè è menzionato per la prima volta nei documenti cinesi intorno all’anno 222.

Nel terzo secolo, sotto la dinastia Tang, il tè iniziò a diventare talmente popolare che per le sue proprietà rigeneranti, che aiutavano anche a godere di buona salute, fu nominato bevanda nazionale. Tutti i contadini iniziarono a coltivare le piante di tè che venivano poi raccolte, tostate, ridotte in piccoli pezzi e conservate in vasi di porcellana. Per cucinarlo venivano impiegati l’acqua bollente, spezie, cipolla, zenzero o arancio, che venivano aggiunti ai vari infusi per creare variazioni differenti.

Nel 700 circa, Ch’a Ching scrisse il primo libro sul tè, spiegando i metodi di coltivazione e preparazione della bevanda; in seguito questo libro ispirerà i monaci buddhisti Zen in Giappone, che a loro volta lo “adottarono” dando vita a quella che noi oggi chiamiamo cha no yu o “cerimonia del tè”. È tra il 960 e il 1279, durante il dominio della dinastia Song, che il tè fu importato in Giappone dai monaci Zen; si racconta che essi trovassero in esso un valido sostegno per la loro vita fatta di estenuanti e difficili pratiche di meditazione. Il tè in polvere veniva mescolato con semplice acqua e la bevanda così ottenuta, aveva un potere eccitante. Fu il monaco Eisai a portare dalla Cina alcune piante di tè e le relative pratiche di utilizzo; egli lo fece conoscere in Giappone e insegnò quelle pratiche che a sua volta aveva appreso e che condussero, poco alla volta, all’attuale cerimonia del cha no yu. Tuttavia, nel tempo, la Cerimonia perse i suoi connotati spirituali e diventò per gli aristocratici, solo un gioco dove i partecipanti dovevano indovinare l’origine delle foglie di tè che veniva consumato. In questo senso, la cerimonia assunse delle connotazioni ludiche eliminando l’aspetto Zen sotteso alla pratica.

La rielaborazione della cerimonia avvenne tra il 1423 ed il 1502 ad opera del monaco Zen Murata Shuko che le restituì i suoi aspetti spirituali e le sue connotazioni primarie, ovvero la semplicità e la sobrietà (concetto del wabi-sa). Nel 1489 Yoshimasa abbandonò la vita politica e dopo essersi trasferito in una specie di villa-tempio (conosciuta col nome di “Padiglione d’argento”), divenne il promotore della cerimonia del tè, facendo diventare il Padiglione d’argento (in giapponese Ginkaku-ji), il luogo di nascita ufficiale del cha no yu. Infine fu il maestro Sen no Rikyū a portare avanti l’antica tradizione del tè, organizzando vari incontri che confluivano in veri e propri ricevimenti e che diedero il via alla diffusione dei cosiddetti Maestri del tè e alle Scuole ad essi affidate.

A partire da questo momento, il cha no yu venne anche chiamato chadō o sadō (茶道, ossia la “Via del tè”) e riprese l’antica tradizione Zen, basandosi sulla concezione del wabi-cha (侘茶) , ovvero lo stile semplice e sobrio che costituisce il cuore della cerimonia e degli insegnamenti Zen. Nel seguire la semplicità e la sobrietà si scorge la vera bellezza di quest’arte, che si va spogliando del suo carattere sontuoso e molto spesso appariscente. Tuttavia essa è intrisa non solo di wabi-cha, ma anche degli altri stati d’animo giapponesi: sabiaware e yūgen. Riguardo alle dottrine e alla spiritualità che hanno ispirato la Cerimonia del tè, si parte dal Taoismo cinese e si termina con lo Zen. Senza lo Zen, non sarebbe immaginabile il cha no yu così come è conosciuto. Il Buddhismo Ch’an, che in Giappone si traduce a sua volta in “Zen” e, insieme al Taoismo, la corrente che ha tessuto lo sfondo teorico pratico del cha no yu; l’attenzione alla vita di tutti i giorni era una caratteristica tanto del taoismo quando del buddhismo cinese, portatori di una forma mentis molto distante da quella del lettore moderno occidentale.

Tipi di tè utilizzati

I giapponesi hanno consumato tè, soprattutto tè verde, per centinaia di anni. Benché si utilizzino diversi tipi di tè, è sempre il tè verde chiamato matcha ad essere usato durante la Cerimonia del cha no yu. Polverizzato e mescolato con dell’acqua calda grazie ad un particolare frullino di bambù (il chasen), il matcha (letteralmente “tè polverizzato”), viene prodotto dai germogli della pianta e per questo, durante la preparazione, esso assume un sapore particolarmente forte. Oltre al matcha si utilizzano anche l’usucha (tè leggero) ed il koicha (tè denso).

In cosa consiste il cha no yu o chadō o sadō (茶道, “Via del tè”)

L’occupazione più complessa a cui i giapponesi si dedicano nel tempo libero è la Cerimonia del tè. Quella attuale costituisce un momento altamente spirituale che va ben oltre la preparazione di questa bevanda. La casa del tè si chiama sukiya; in Giappone tale cerimonia si svolge sul pavimento ricoperto di stuoie tatami, in una piccola stanza da tè in cui si entra quasi strisciando attraverso una porticina bassa, dopo aver percorso il cosiddetto “sentiero della rugiada”. Abbassarsi per penetrare in questa stanza e un gesto d’umiltà e allo stesso tempo è un momento che richiama ordine ed equilibrio interiori. Il comportamento assai formale del padrone di casa (vestito col kimono) e dei suoi ospiti, l’uso di argenteria e vasellame, conferiscono a questo rito, un carattere alquanto particolare. Essendoci diverse scuole, vi sono vari modi di celebrare la cerimonia del tè, ma tutti condividono gli stessi elementi essenziali. La casa del tè (sukiya) comprende una sala per il tè (chashitsu) e una stanza per la preparazione (mizuya), una sala d’attesa (yoritsuki) e un sentiero (roji) che, attraverso il giardino, porta fino all’ingresso della casa del tè. La casa è generalmente situata in un angolo del giardino particolarmente boscoso. I principali utensili, generalmente dei veri e propri oggetti d’arte, sono la ciotola per il tè (chawan), il contenitore del tè (chaire), il frullino di bambù (chasen) e il mestolo di bambù (chashaku). Coloro che si apprestano al chadō, si vestono con colori discreti. Nelle occasioni di grande solennità, gli uomini portano un kimono decorato con lo stemma familiare e le calze bianche tradizionali giapponesi (tabi). Le donne indossano lo stesso abbigliamento. Gli invitati devono portare con se un piccolo ventaglio pieghevole e un pacchetto di fazzolettini di carta (kaishi). All’interno della stanza del tè c’e un tokonoma, cioè una piccola alcova rialzata, con tatami per pavimento, dove solitamente sono appese le pergamene giapponesi, dette emakimono ed una composizione di piante sistemate secondo i concetti dell’ikebana. Prima di entrare bisogna togliersi le scarpe e l’orologio, perché nella stanza del tè il tempo non esiste più e chi entra si spoglia di esso per entrare in una sorta di spazio sacro ed a-temporale. C’e come la percezione che tutto sia sobrio, elegante e bello nella sua essenzialità. «Tutto non è che armonia e semplicità, silenzio vivente, serenità.» Si è invitati a fare vuoto in se stessi, abbandonare le turbolenze interiori per aprirsi alla pace e alla serenità. Nel natsume, ovvero una scatola di in lacca nera finemente decorata, è contenuta la polvere di tè. Benché sia una cerimonia in cui non entrano né divinità né spiriti, essa ha un che di sacro ma allo stesso tempo, appartiene in toto al nostro mondo terreno. Siamo davanti ad una strana contraddizione: da una parte stiamo celebrando una cerimonia (il cui termine fa pensare a qualcosa di sacro), ma dall’altra manca il contatto con una qualsiasi divinità. Dall’altra c’e una precisa etichetta da seguire, ma contemporaneamente manca qualsiasi accenno ad un’etica religiosa. La stanza del tè rappresenta il mondo esterno, contrapposto a quello interiore, e allo stesso tempo un luogo sicuro che permette quel genere di comunicazione intima e profonda che può realizzarsi soltanto tra le mura domestiche. È un luogo in cui ogni distinzione di ceto o barriera di casta vengono temporaneamente sospesi. È uno spazio indefinito, dove si comunica attraverso il linguaggio della gestualità e dei movimenti. La bevanda del tè, con le sue proprietà mistiche e terapeutiche, diviene il centro della venerazione: il tempo si ferma, lo spazio scompare. La cerimonia ha inizio in questa maniera: tutti gli invitati si siedono e la persona più importante comincia con il posizionare tutti i vari utensili per preparare il tè. Nel frattempo si rivolge al commensale principale invitandolo con la frase “Okashi wo douzo” a consumare il dolce. Subito dopo gli porge la tazza del tè. L’ospite a questo punto la prende mentre pronuncia la parola “osakini” che non è altro che un modo per scusarsi con gli altri partecipanti alla cerimonia di essere il primo a prendere il tè. A questo punto chiede il permesso di servirsi. Prende la tazza e la gira in modo che la rifinitura sia rivolta verso il teishu ossia “colui che prepara il tè”. Quindi inizia a bere piccoli sorsi della bevanda e pulisce il bordo della tazza e la posa davanti a sé. Il taishu riprende la tazza e la lava. La cerimonia poi procede allo stesso modo con tutti gli altri ospiti fino a che tutti non hanno finito di bere il tè. L’essenza della cerimonia del tè è sintetizzata nel pensiero di Sen no Rikyū: «Può accadere che una volta nella tua vita incontri uno sconosciuto e che tu riesca a scorgere in quel momento quella che è tutta la tua verità.» L’idea di fondo è che ogni incontro con un’altra persona è unico e vi e la consapevolezza che potremmo anche non rivedere mai più quella persona e quindi bisogna far sì di non avere rimpianti per come ci si e comportati. Ecco quindi che nel cha no yu vale la regola che si può riassumere con questa frase: «Mi impegnerò al massimo per dimostrarti ospitalità ed eseguire perfettamente questa cerimonia, poiché ogni incontro è unico nella vita, cioè potremmo non rivederci più (e non voglio avere rimpianti per come ho agito in questa occasione).»

La cerimonia del tè e i cinque elementi

Nella sala da tè possiamo simbolicamente ritrovare la presenza dei cinque elementi, ossia il legno, il fuoco, la terra, il metallo e l’acqua. Il legno col tokohoma, insieme ai tre piccoli utensili utilizzati per la preparazione del tè: il mestolo dal manico lungo (hishaku), la frusta per battere il tè (chasen) e il cucchiaio per prendere la polvere di tè (chashaku). Il fuoco (focolare) su cui poggia il bollitore. Esso concentra in se la concezione taoista della perpetua trasformazione della vita in pulsione vita-morte, vale a dire yin-yang, perché il carbone di legna che vi brucia diviene ad un tempo fiamma di vita e cenere. La terra, ovvero il vaso dell’acqua fredda (mizusashi) è la tazza da tè (chawan). Il metallo, cioè il bollitore (kama) ed infine l’acqua, calda e fredda, ossia yin e yang; l’acqua si scalda nel bollitore e si trasforma in vapore e scomparendo nell’aria, simbolicamente rappresenta il grande mistero della vita. Per questo gli invitati vanno ad inchinarsi davanti al focolare.

I principi del cha no yu

La Cerimonia del tè si fonda su concetti basilari che ogni maestro del Tè è fondamentale che insegni ai suoi discepoli:

wa, ossia il principio di armonia (armonia tra le persone e con la natura, armonia degli utensili e la maniera in cui essi vengono usati);

kei, il principio del rispetto verso tutte le cose e sincera gratitudine per la loro esistenza;

seipurezza interiore, ma anche pulizia delle cose che ci circondano; è la parte della cerimonia che invita a spazzare dalla stanza ciò che è costituito da vecchie energie e a predisporsi ad accogliere il bello e il nuovo. Anche nella vita, questo e un principio che invita a “spazzare” via i complessi, i vincoli, i dubbi, inutili preoccupazioni e accogliere il bello, l’ordine, l’armonia, la perfezione e la vera essenza della bellezza;

jaku, principio di tranquillità e pace della mente, conseguente alla realizzazione dei primi tre principi.

I maestri del tè e il teismo

Il maestro del tè era un vero artista, o meglio qualcosa di più; egli voleva incarnare l’arte stessa. Questa aspirazione è lo Zen dell’estetica. Maestro Rikyū diceva che la perfezione è ovunque se soltanto siamo capaci di accorgerci della sua presenza.

Molteplici sono i contributi che i maestri del tè hanno dato all’arte; essi hanno rivoluzionato l’architettura classica, l’arredamento d’interni, inventando stili ben precisi che hanno esercitato un’influenza persino nella costruzione dei palazzi e dei monasteri edificati nel XVI secolo. Si pensi solo che i più celebri giardini giapponesi, furono progettati dai maestri del tè. Molti dei nostri tessuti portano il nome di questi maestri, che ne concepirono i colori e i motivi; anche nella pittura, nell’arte della lacca e della ceramica la loro influenza fu notevole. Lo stesso avvenne per lo stile di vita: avvertiamo la loro influenza non solo negli usi dell’alta società, ma anche in tutti i dettagli della vita quotidiana. Sono loro invenzioni alcuni dei nostri piatti più raffinati, come anche il nostro modo di servire il cibo. Partendo dal tè e dalla concezione di una vita sobria, essenziale e allo stesso tempo intrisa di bellezza, il tè è entrato a far parte della vita della gente. «Perché il Teismo è l’arte di nascondere la bellezza affinché altri la possano scoprire e di suggerire quello che non si vuole rivelare. Il Teismo è il nobile segreto di saper sorridere interiormente, quietamente e quindi è l’essenza dell’umorismo stesso, il sorriso del filosofo.» «Solo chi ha vissuto con la bellezza può morire in bellezza», è scritto nel libro di Kazuko Okakura dal titolo Lo Zen e la cerimonia del tè. Gli ultimi istanti della vita dei grandi maestri del tè furono pieni di squisita raffinatezza, cosi come lo era stata la loro stessa esistenza; alla ricerca di un rapporto amoroso col cosmo e col ritmo dell’universo, erano pronti alla fine della vita, ad entrare nell’ignoto. Il Maestro Rikyū, accusato di tradimento nei confronti di Taiko Toyotomi Hideyoshi, un grande guerriero del suo tempo, fu costretto a suicidarsi. Si racconta che maestro Rikyū, prossimo alla fine, si tolse l’abito da tè e lo piegò su una stuoia, scoprendo cosi la veste immacolata della morte che fino ad allora, aveva conservato e nascosto. Dopo aver offerto a Toyotomi Hideyoshi per l’ultima volta il tè nella sua spoglia ed essenziale chashitsu, si suicidò. Prima di morire scrisse una poesia di addio, secondo l’usanza, e incise queste parole: Che tu sia la benvenuta, spada dell’Eternità! Attraverso il Buddha e attraverso il Dharma ti sei aperta la via. E con un sorriso il maestro Rikyū entrò nell’ignoto.

Eufemia Griffo 

Blog personale:

Bibliografia e sitografia:

Lo Zen e la cerimonia del tè, di Kazuko Okakura;

Il libro del tè, di Kakuzo Okakura;

http://sakuramagazine.com;

http://ditadinchiostro.blogspot.it;

http://spazioinwind.libero.it/culturatradizionalegiapponese/cerimoniadelte.htm;

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