A cura di Paola Milli
Gli antenati dei libri: vasi e tavolette d’argilla
La storia del libro come raccoglitore di testi di vario genere ha radici lontanissime che affondano in millenni di storia. Oggi siamo abituati a vedere libri con pagine di carta o in formato digitale, ma i supporti per la scrittura nei millenni sono stati vari, a partire da pietre e da suppellettili usate per la vita quotidiana.
Le prime civiltà mesopotamiche, circa venti secoli prima di Cristo, utilizzarono il disegno su vasi di terracotta e i caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla per fini pratici.

Sono stati trovati dagli archeologi elenchi di prodotti alimentari stivati nei magazzini, registri contabili e di scambio di merci scritti con una tecnica cuneiforme. I caratteri si scrivevano da sinistra a destra mediante uno stilo di canna dura o metallo, la cui punta acuminata affondava nell’argilla. In origine i segni erano pittografici e riproducevano schematicamente gli oggetti; in seguito divennero lineari e acquistarono la forma di cunei quando si cominciò a scrivere nell’argilla ancora molle, su cui era impossibile segnare con chiarezza le linee. Col tempo i segni divennero più semplici e più simmetrici mentre il fonetismo – l’espressione dei suoni – soppiantava definitivamente l’ideografismo.
Centinaia di migliaia di tavolette in argilla incise costituiscono le biblioteche che ci sono state tramandate dalle genti sumere, accadiche, fino agli Assiri e ai Babilonesi.
I caratteri cuneiformi permettevano di scrivere non solo contratti di prestito, affitti e razioni alimentari, ma anche i sentimenti, le vicissitudini, le angosce, le necessità, le conoscenze mediche e religiose delle prime civiltà della storia.

La tecnica scrittoria, tuttavia, era piuttosto complessa e alla portata di pochissime persone – di solito funzionari statali – molto specializzate: gli scribi. Essi erano il filtro attraverso cui ci è stata tramandata la voce dei potenti, ma anche la sofferenza degli oppressi.
Gli scribi accreditati nei centri mesopotamici di circa 4000 anni fa svolgevano l’opera fondamentale di ricopiare o tradurre in accadico il patrimonio letterario del millennio precedente.
Un esempio molto noto di questo lavoro è quello dell’epopea di Gilgamesh risalente a circa 4500 anni fa, tra il 2600 a.C. e il 2500 a.C. In esso numerose leggende sumeriche sul dio-re della Uruk arcaica vennero riprese e riscritte creando un’opera di grande diffusione nei millenni successivi, il più antico poema epico che sia giunto fino a noi.
Del testo possediamo, oltre all’edizione principale allestita per la biblioteca del re Assurbanipal e ora conservata nel British Museum di Londra, altre versioni più antiche e frammentarie. Tavolette cuneiformi che lo riportano sono state trovate in Anatolia, scritte in lingua ittita e hurrita, in Siria e in Israele. Il testo ha avuto grande influenza nella letteratura, nella religione e nell’arte dell’antico Oriente e ha ispirato alcuni passi biblici dell’Antico Testamento.

L’epopea di Gilgamesh, primo poema epico della storia
Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo;
di colui che apprese e che fu esperto in tutte le cose.
Di Gilgamesh, che raggiunse la più profonda conoscenza,
che apprese e fu esperto in tutte le cose.
Egli esplorò ogni paese
ed imparò la somma saggezza.
Egli vide ciò che era segreto, scoprì ciò che era celato,
e riportò indietro storie di prima del diluvio.
Egli percorse vie lontane, finché stremato, trovò la pace
e fece incidere tutte le sue fatiche su una tavoletta di pietra.
Così inizia l’epopea di Gilgamesh, eroe che alcuni studiosi identificano con il quinto sovrano della prima dinastia di Uruk, secondo la Lista Reale sumerica. Egli è figlio della dea Ninsun e di Lugalbanda, re di Uruk ed è considerato in parte dio e in parte uomo.
Il poema narra l’amicizia tra il Gilgamesh e un altro eroe, Enkidu, creato con la missione di punirlo per la tirannide esercitata a Uruk. I due in principio si combattono fino a quando Enkidu riesce ad avere ragione del nemico. In seguito, però, tra Gilgamesh ed Enkidu nasce una grande amicizia e insieme compiono diverse gesta eroiche tra le quali l’uccisione di Khumbaba, una creatura mostruosa.
In seguito a tale azione, però, Enkidu muore e l’amico disperato, allora, cerca in tutti i modi di ridargli la vita.
Le tavolette ritrovate ci tramandano tre diverse conclusioni della vicenda: nella prima Gilgamesh, dopo tante fatiche, torna a Uruk e ne diviene il sovrano; nella seconda muore e diventa intermediario tra il mondo dei vivi e gli Inferi. La terza variante fa terminare il poema col dialogo tra il re e lo spirito di Enkidu.
In ogni caso questo testo può essere considerato l’antesignano dei testi letterari e le tavolette che lo riportano sono i primi “libri” prodotti. Da allora in poi molti sono stati i materiali e le forme dei supporti utilizzati dagli uomini per comunicare e tramandare vicende e sentimenti.